Dichiaro immediatamente che se questo disco fossi riuscito a sentirlo prima, a quest’ora si sarebbe guadagnato un posto alto e inamovibile nella mia personale classifica di fine anno. Che poi compilare classifiche sia oramai divenuto un semplice atto di esibizionismo, è un altro discorso. La verità però è che non sono molti i lavori che non si smetterebbe mai di ascoltare, oggi che tutto è accelerato, che escono centinaia di titoli ogni settimana e, ciononostante, ci sentiamo ancora assurdamente in dovere di tenere il passo.
Sia quel che sia, la J&F Band arriva con Star Motel al quarto capitolo della propria personale discografia, anche se la mole complessiva del contributo offerto dai suoi componenti è tale da non poter essere misurato.
Jaimoe Johanson (che è stato, tra le altre cose, un membro fondatore dell’Allman Brothers Band) e Joe Fonda (bassista Jazz con un numero sterminato di registrazioni a suo nome, da solo e con numerosi progetti diversi) hanno rimesso assieme la formazione che ha inciso lo splendido Me and The Devil di tre anni fa (un unico avvicendamento: ad una delle chitarre c’è Craig Green al posto di Scott Sharrard) e sono tornati a jammare per tre giorni al solito Firehouse 12 Studio di New Haven, Connecticut, sotto la sapiente direzione di Fabrizio Perissinotto, che ha prodotto il disco e lo ha pubblicato, come il precedente, per la sua Long Song Records.
Star Motel è un doppio album, come lo era anche l’esordio From the Roots to the Sky, ed è, citandone alla lettera il sottotitolo, “un’esperienza musicale americana”: il Motel in copertina, situato in una perfetta cornice da romanzo On The Road, può fungere da punto di partenza, di arrivo, o di sosta intermedia, ma il viaggio è quello sulle highway polverose e solitarie che da sempre affascinano i più e che fanno parte del nostro immaginario culturale almeno dal secondo dopoguerra.
Non è un caso che sia proprio “Route 66”, il classico di Bobby Troup qui riletto in chiave di lento e strascicato Blues, ad aprire le danze; e anche se quella strada oggi non c’è più, ridotta ad una serie di inerti luoghi della memoria, il fascino che riesce ad evocare risulta inalterato.
L’ensemble conta in tutto nove elementi ed è un mix esplosivo di talenti italiani e statunitensi come Tiziano Tononi (batteria), Paolo Durante (piano, Hammond, mellotron), Emanuele Parrini (violino), David Grissom (chitarra), Jon Irabagon (sax), Bobby Lee Rodgers (chitarra e voce), Craig Green (chitarra). Con musicisti di tale livello c’è poco da fare, se non lasciarli da soli nella stessa stanza e vedere che cosa può venirne fuori. E il risultato, ancora una volta, è strabiliante: il primo cd è di fatto un Coast to Coast nella tradizione musicale americana, con le composizioni originali e le riletture dei classici che si mescolano senza soluzione di continuità, complice un lavoro in sede di arrangiamento che reinventa tutto e lascia ben poco spazio al mero discorso del “coverizziamo un brano di successo”.
E così, se la già citata “Route 66” avanza blueseggiante aperta dal violino di Parrini, divenendo poi preda del sax impazzito di Irabagon, con le sue divagazioni lancinanti al limite del Free Jazz, la title track, scritta da Bobby Lee Rodgers come le altre due composizioni originali, alza il ritmo con un Funk incalzante, anche qui col sax protagonista, un ritornello coinvolgente ed un’altra Jam infuocata nella parte finale, giusto un antipasto di quello che si preparerà nelle tracce successive.
Spettacolare è infatti la loro personale interpretazione di “You Got Me Running”, un Blues di Jimmy Reed interpretato, tra gli altri, anche da Elvis Presley: piuttosto standard la prima parte, con un Grissom sugli scudi nella sezione strumentale, la seconda parte è un libero fluire di improvvisazione, dove i vari strumenti salgono a turno in cattedra (notevole soprattutto l’alternanza tra chitarra e violino), il tutto supportato dal drumming incessante di Jamoe e “Tiz the Wiz” Tononi. È uno dei momenti più alti del disco, dove il Jazz incontra i Grateful Dead più “classici”, deprivati della psichedelia.
“Formula One”, altro brano originale, è un Rock piuttosto standard e conciso, piacevole nel ritmo e nelle linee vocali, con Hammond e sax a fare da efficace contrappunto e a distendersi meravigliosamente nella parte centrale; con “Take the Highway” il ritmo se possibile si fa ancora più alto, per un’incursione nel Southern Rock della Marshall Tucker Band, che sfuma poi in un solo scatenato di Paolo Durante al pianoforte, col sassofono che sviluppa un controcanto indiavolato.
“Lighthouse” è invece l’episodio più interessante dal punto di vista della scrittura, dotato di un groove notevole e di un’ottima interpretazione vocale.
Il secondo cd rappresenta una goduria totale per chi ama band come Phish, Allman Brothers Band, Goose, Grateful Dead, e tutti quegli act che hanno nell’improvvisazione strumentale il loro punto infuocato. È un crossover interessante perché il punto di partenza è Charles Mingus, omaggiato da un medley da 30 minuti, che di fatto è una lunga suite dove si alternano brani del grande compositore ed altre composte da Tiziano Tononi, ma poi di fatto il Jazz costituisce solo un punto di partenza per muoversi in molteplici direzioni, non tutte facilmente fruibili (c’è qui, rispetto alla prima parte, un’attenzione maggiore al rumore e all’atonalità).
Chiudono i 17 minuti di “The Rez: Active Resistence!”, ispirato al confinamento forzato dei nativi americani nelle riserve (l’attenzione alle tematiche civili è un altro punto importante per la band, che nel disco precedente aveva dedicato a George Floyd la conclusiva “Nothing Matters”) e gli 11 di “The Jaimoe Jam”, allo stesso tempo titoli di coda e dichiarazione d’intenti.
Sempre la solita roba, certo. Due ore di musica così, però, sono manna dal cielo sempre e comunque, non importa quanto siano abusati gli stilemi a cui si rifanno. Se la musica è anche passione, dedizione e divertimento, nello Star Motel direi che ne abbiamo in abbondanza.
Il mio disco dell’anno da universo parallelo.