È un lungo cammino quello che porta dall’essere parte di una band all’esperienza solista, e che ultimamente sembra divenuto un po’ la norma, come faceva notare Carlo Bordone in un suo recente articolo su Rumore. Tuttavia, se anche, per mille motivi sia economici che sociali, fare musica come singoli individui potrebbe essere al momento attuale più facile e conveniente, mettersi in gioco in prima persona, senza la rete di sicurezza rappresentata dalle persone con cui si suona, non dev’essere comunque una decisione così scontata.
Terminata l’avventura coi Lady in the Radiator (durata giusto un paio di singoli, anche se impreziosita dalla vittoria del Rock Contest di Controradio, nel 2019), complice anche la solita pandemia che, ormai lo abbiamo capito, ha contribuito non poco a plasmare la narrazione musicale degli ultimi anni, Sara Parigi riparte da zero e riparte da se stessa, col proprio nome sulla copertina e con dieci canzoni che, se si eccettua il filo conduttore rappresentato dalla sua voce, non hanno poi moltissimo da spartire con l’identità sonora del precedente gruppo (che poi era sostanzialmente un duo, assieme al chitarrista Robin Frosini).
Il titolo Stanza è significativo e per certi versi ossimorico: se il punto di partenza è senza dubbio la dimensione chiusa e limitata che il Covid ha per forza di cose imposto, è altrettanto vero che le suggestioni di cui queste canzoni sono ammantate evocano spesso spazi dilatati, come a voler cercare rifugio in una dimensione alternativa, dove fosse salvaguardata la possibilità di essere autentici (è pure significativo che due canzoni, “Specchio” e “Rive”, siano ispirate a Le città invisibili di Calvino, sorta di atlante immaginario che è anche un tentativo dare forma concreta e razionale al mistero dell’esistenza).
Altro tema centrale di questo lavoro è la presenza di Alessandro Fiori, che su questi pezzi ha fatto un po’ di tutto: li ha prodotti, arrangiati, e vi ha suonato sopra una quantità esagerata di strumenti (dal violino al basso, dal mellotron all’harmonium, più un sacco di altra roba, voci comprese). Mi sono perso nel bosco era stato un piccolo miracolo di bellezza nella scena cantautorale italiana (se n’è parlato troppo poco, rispetto al suo reale valore) e qui se ne capisce un po’ di più il motivo.
L’incontro, tutto toscano, tra i due, si è concretizzato alla Cotton Factory di Emanuele Para (che suona la batteria su un paio di tracce) a Sarsina, nei pressi di Forlì, dove il disco è stato registrato. Difficile distinguere i meriti dell’uno o dell’altro: quel che è certo è che le canzoni sono bellissime, mai scontate, in bilico tra cantautorato e Art Pop sofisticato e raffinatissimo, senza però che la ricercatezza compositiva vada a discapito della melodia. Si tratti di Down Tempo (“Edera”, “Abbraccio”) o di episodi più ritmati (“Gola”, “Tornado”, “Pelle”, con un gran lavoro percussivo) l’andamento non è mai lineare e gli strumenti (che siano elettronici o acustici) sempre molto equilibrati nella loro alternanza e nel loro utilizzo, disegnano di volta in volta paesaggi piacevoli, seppure non mancano mai tensione e malinconia. Il tutto tenuto assieme da una voce davvero interessante per timbrica ed estensione.
Il finale, con “Piccola orchestra” e i suoi archi ispirati ad una suite di Stravinskij, dicono anche dell’ambizione di un lavoro che non ha paura di prendere le proprie influenze dagli ambiti più disparati.
Stanza non è per tutti: non perché sia eccessivamente cerebrale, ma perché è concepito in modo tale da rivelarsi all’ascoltatore in modo graduale, dopo molteplici ascolti. In questo senso, non è adatto al clima da usa e getta in cui ci troviamo immersi e da cui sembra sempre più difficile liberarsi. Non sono troppo ottimista sugli esiti, ma sono certo che la musica di Sara Parigi potrebbe giocare un ruolo importante nel farci riacquistare la coscienza del fatto che la musica, come l’arte in generale, è una cosa seria e come tale richiede di essere guardata.