Ci eravamo quasi dimenticati dell’esistenza degli Americans, dal momento che dal loro convincente album d’esordio, I’ll Be Yours, sono trascorsi la bellezza di cinque anni. La band con sede a Los Angeles, composta dal frontman Patrick Ferris, dal chitarrista Zac Sokolow, dal bassista Jake Faulkner e dal batterista Tim Carr, torna alla ribalta con questo Stand True, un disco che dal punto di vista stilistico concede meno varietà del suo predecessore, ma che, per converso, ha il merito di affinare ulteriormente il loro suono, segnato da roots rock, country, americana, e da riferimenti classicissimi che vanno da John Mellencamp ai Drive By Truckers. In scaletta, undici solide canzoni, in riuscito connubio fra acustico ed elettrico, che parlano con passione di amore, tradimenti e perdite dolorose.
L'album si apre con la splendida title track, che prende il via con un godurioso fingerpicking in stile country, spostando presto gli accenti verso atmosfere bluesy, attraversate da scosse elettriche ed eccitate da un sontuoso assolo finale, tanto travolgente quanto ruvido. La band gira a mille, in palla e china sugli strumenti, facendo da contorno alla voce virile e appassionata di Patrick Ferris. Le oscillazioni vocali di "Born With A Broken Heart", spalleggiate dalla potenza delle chitarre, danno vita a un viaggio emotivo tempestoso, che sembra uscito da un suggestivo incontro fra i Counting Crows e un Chris Isaak in overdose da testosterone.
Le struggenti storie d'amore di Isaak, opportunamente rivisitate con maggior spavalderia, tornano in mente nella grintosa "Romeo" (in cui si possono cogliere anche echi dei Dire Straits) e nel deliquio traboccante di sincero sentimento di "What I Would Do", ballatona venata di soul, in cui Ferris si esibisce in una prova vocale di grande intensità. Il livello di scrittura, nonostante qualche momento più prevedibile, resta per tutta la durata del disco a un livello davvero notevole, come testimoniano la conclusiva "Here With You", altro brano cantato con il cuore in mano e carico di emozioni, che sembrerebbe trattare la rabbia e il dolore che si prova a perdere qualcuno a causa della demenza, e nella dinoccolata "Farewell", ballata in quota Dylan, che parla di un lutto e del disperato dolore per la morte di una persona cara, che ha sofferto tanto (“Sono felice che sia finalmente finita, Almeno lei è in un posto migliore”).
Se il fingerpicking di "Guest Of Honor" è un evidente richiamo alle canzoni più acustiche del loro primo album, l’emozionante "Give Way", con le sue chitarre grintose, richiama la forza espressiva dei Creedence, mentre la scorticata "Sore Bones" è un tripudio di elettricità, che scuote con potenza le casse dello stereo. Resta da citare la ruvida cavalcata soul rock di "The Day I Let You Down", evidente omaggio a The Band e uno dei momenti più alti di un disco profondamente americano e straordinariamente intenso. Da non perdere.