L’ultimo passaggio di Anne Erin Clark, in arte St. Vincent, dalle nostre parti era avvenuto (sempre che non stia dimenticando qualcosa) sette anni fa al Circolo Magnolia di Milano: era il tour di Masseduction, probabilmente il suo lavoro più ruffianamente Pop (nonché il mio preferito, by the way - qui la nostra recensione) e al di là di alcuni problemi di resa sonora, lo ricordo come un bel concerto.
Da allora di cose ne sono successe parecchie: è uscito Daddy’s Home (qui la nostra recensione), decisamente diverso dal precedente, più cantautorale e Seventies nelle influenze, mentre quest’anno, con All Born Screaming (qui la nostra recensione), è avvenuto un parziale ritorno alle sonorità a lei più congeniali, un fatto certificato anche dalle reazioni maggiormente entusiaste di critica e pubblico.
È un Fabrique ancora mezzo vuoto (la proverbiale abitudine dei milanesi di arrivare in ritardo a qualunque evento e di fregarsene altamente dell’artista di apertura) quello che accoglie Anna B. Savage, che si presenta sul palco con un appariscente vestito scarlatto e una chitarra acustica in mano. L’artista britannica, che finalmente riesco a vedere dal vivo, dovrebbe annunciare a brevissimo (stando a quanto da lei stessa dichiarato durante questo tour) un nuovo album, il terzo della sua carriera, nonché seguito del meraviglioso in/FLUX dello scorso anno.
L’iniziale “Corncrakes”, voce e chitarra, è splendida per l’intensità della prova vocale e mette subito le cose in chiaro sul perché i suoi due album siano stati così lodati in passato. Segue un brano inedito, anch’esso in versione acustica, ispirato al suo recente trasferimento in Irlanda.
Dopodiché, e questo a mio parere è un problema grosso, partono le basi ed il set acquista un fastidioso effetto karaoke che rovina la pur innegabile bellezza di brani come “The Ghost” o “Pavlov’s Dog”. Niente da dire sull’interpretazione di Anna, che ha una voce indiscutibile e la sa usare bene anche dal vivo. Comprendo anche la necessità di voler dare al proprio pubblico qualche arrangiamento in più, dato che la ricercatezza del vestito sonoro è uno dei punti di forza dell’ultimo disco. Detto questo, una roba così io non la posso proprio sentire. Se manca il budget per girare con una vera e propria band, credo che l’unica opzione possibile sia suonare chitarra e voce; anche perché, dalle battute iniziali dello show, abbiamo capito che se lo può permettere eccome. Peccato, dal mio punto di vista rimane un’occasione sprecata.
L’altra nota dolente (poi smetto, giuro) è che abbiamo dovuto aspettare quasi un’ora prima che l’headliner della serata cominciasse a suonare. L’orario previsto sarebbe dovuto essere le 21, non è iniziato che alle 21.30: a meno di qualche inconveniente tecnico (potrebbe anche essere, dato l’avvincendamento dei tecnici sul palco nei minuti precedenti) l’ho trovata una decisione alquanto farraginosa.
Le lamentele, ad ogni modo, terminano nel momento in cui parte l’accompagnamento soffuso di “Reckless”, con la band al completo su un palco lasciato quasi completamente al buio; nella seconda parte il brano esplode con l’entrata della chitarra e della sezione ritmica, lo stage si illumina a giorno, mentre le urla entusiaste del pubblico certificano che il concerto è davvero iniziato.
Che i due brani successivi siano “Fear the Future” e “Los Ageless”, che sono tra gli episodi più catchy della sua discografia, dice molto su quello che sarà il tono della serata, molto danzereccio e poco riflessivo, nonostante le ottime versioni voce e piano di ballate come “Candy Darling” e “Violent Times”.
La band di St. Vincent è cambiata totalmente in questi ultimi anni: alla chitarra c’è Jason Falkner, alla batteria Mark Guiliana, Rachel Eckroth alle tastiere e alle imprescindibili backing vocals, mentre la bassista Charlotte Kemp Muhl è entrata in pianta stabile solo da pochi mesi. L’impressione è che si tratti già di una formazione compatta e rodata, che riesce ad esprimere al meglio l’impronta inconfondibile del sound di Annie Clark: chitarre massicce, tastiere pompate al massimo e voci sempre bene in evidenza; una miscela sonora sempre in bilico tra Rock e Pop, con lei stessa che in più punti suona la chitarra, da sempre suo strumento di riferimento, regalando momenti di piacevole interazione strumentale con gli altri quattro.
L’artista texana del resto è una performer di prima grandezza, e non lo scopriamo oggi: di fatto tiene in piedi lo show quasi da sola, non solo perché suona e canta benissimo, ma anche per la notevole presenza scenica, concretizzata in una performance a metà tra l’ironico ed il provocante, con alcune trovate decisamente coinvolgenti (la perfetta caduta all’indietro alla fine di “Broken Man”, lo stage diving coast to coast durante “New York”, il coreografico finto battibecco con Charlotte Kemp Muhl ed un tecnico sulle battute iniziali di “Sugarboy”).
Il nuovo disco è il principale protagonista della setlist, con gli episodi proposti che non solo godono di una gran resa, ma che dimostrano di essere stati totalmente assimilati dal pubblico (la partecipazione sulle varie “Flea”, “Sweetest Fruit”, “Hell is Near” è di per sé piuttosto eloquente) e ben figurano accanto ai classici della prima ora (immancabile “Marrow”, oltre ovviamente ad una “Dilettante” dall’esplicito mood sixties e alle potenti ed irresistibili “Digital Witness” e “Birth in Reverse”).
Finale con una "All Born Screaming" particolarmente maestosa ed una toccante versione piano e voce di “Somebody Like Me”: dopo tutti i lustrini ed i colori sgargianti, Annie Clark sceglie di concludere mostrando al pubblico il suo lato più intimo ed è un contrasto che piace parecchio.