Prima data italiana da headliner per gli Squid, che dopo le cancellazioni dell’era Covid eravamo riusciti a vedere, brevemente ma in maniera sufficiente a valutarne la straordinaria bravura in sede live, nell’ambito del TOdays Festival di Torino. Nel frattempo è uscito O Monolith, secondo album del quintetto di Brighton, che ha introdotto un deciso upgrade nelle influenze sonore e nel livello di costruzione dei brani, passaggio indispensabile per non essere derubricati come l’ennesimo gruppo del nuovo Post Punk proveniente da Gran Bretagna e Irlanda, un giudizio che Bright Green Field, pur ottimo, rischiava di avvalorare.
O Monolith (qui la nostra recensione) è un disco complesso, decisamente poco decifrabile, ma meno “free” e meglio imbastito a livello di geometrie rispetto a quanto combinato, per esempio, dai colleghi black midi: probabilmente sarò smentito dai fatti ma se avessi dei soldi da puntare, li metterei su Ollie Judge e soci.
È un Santeria ancora mezzo vuoto che accoglie Naima Bock, che da sola sul palco si dedica al suo set d’apertura in compagnia della sola chitarra acustica. Chi se la ricordasse nel primo disco delle Goat Girl potrebbe essere rimasto sorpreso nel vederla alle prese con canzoni Folk ispirate alla migliore Joni Mitchell. È cresciuta, e l’abbandono del gruppo con cui ha trascorso gli anni della giovinezza è avvenuto proprio per andare ad esplorare lidi nuovi. È musica datata, la sua, ma niente affatto anacronistica, non dopo che giovani e brillanti autrici come Weyes Blood, Ethel Cain o Julia Jacklin hanno contribuito a rinverdirla e a rinnovarla. Nella mezz’ora a sua disposizione ci sono le canzoni di Giant Palm e la nuova “Lines”, più una canzone tradizionale brasiliana, scelta ideale, visto che parte delle sue origini (e anche del suo background musicale) sono in questo paese.
Niente di originale e canzoni che non diventeranno classici del genere; tuttavia canta bene e la sua performance è intensa e toccante, il pubblico (per lo meno quello che non è a far casino al bar) segue con grande attenzione. In questi giorni ha pubblicato anche un’ottima cover della “So Long, Marianne” di Leonard Cohen ma purtroppo non ce l’ha fatta ascoltare. L’anno prossimo uscirà un nuovo disco: varrà comunque la pena di recuperarlo.
Gli Squid hanno raccontato di aver iniziato a scrivere il nuovo disco il giorno dopo la loro esibizione al Green Man, il popolare festival che si tiene in Galles ad agosto, e siccome erano tutti in balia dei postumi della sbornia, non riuscivano a suonare benissimo, motivo per cui sarebbero venute fuori canzoni in generale più pacate e downtempo.
Ovviamente è un aneddoto divertente e poco più. L’inizio del concerto, con tutti e cinque impegnati a pestare sulle percussioni, ossessività tribale che sfocia dopo alcuni minuti nelle fredde geometrie di “Swing (in a Dream)” certifica il livello altissimo di una band che, seppur giovanissima, ha già le idee chiare sia in fatto di mera tecnica esecutiva sia in quanto ad idee espresse.
Ollie Judge è ovviamente il fulcro di tutto, Motorik implacabile che è però in grado di passare alla dimensione poliritmica ogni qual volta ce ne sia bisogno; al contempo, canta con grande precisione ed espressività le sue linee vocali dissonanti e al confine col parlato. Sono forse l’elemento che più di tutti rende gli Squid assimilabili al movimento Post Punk di ultima generazione, e di per sé sarebbero la cosa meno interessante, se non fossero sostenute da partiture strumentali di grande varietà ed eclettismo.
La costruzione della setlist, del resto, lo dimostra alla perfezione: i cinque partono lenti, con alcuni degli episodi più “progressivi” dell’ultimo disco (“Undergrowth” ma soprattutto la lynchiana “If You Had Seen the Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away”, brano che già dal titolo rivela la materia di cui è composto) e si buttano poi in una sorta di concerto per soli sintetizzatori, un’orchestrazione malata e visionaria che sfocia nella botta in testa di “G.S.K.”, momento in cui gli animi si scaldano, i volumi si alzano e i cinque si ricordano che se picchiassero duro si divertirebbero forse di più.
Da qui in avanti è un’alternanza continua di piani e forti, di passaggi fluidi dal Kraut al Post tutto, di fraseggi chitarristici di stampo Wave che incrociano parti di sax dal chiaro intento Free Jazz. Il tutto con un vestito elettronico sempre mutevole e mai troppo ingombrante, frutto in gran parte del lavoro indefesso di Arthur Leadbetter, uno che a vederlo in azione dà l’idea di essere una sorta di anima musicale del gruppo.
La parte forte arriva nel finale, con “Peel St.” e “Documentary Filmmaker” a creare un martellamento ossessivo e chirurgico, le orecchie che quasi sanguinano per i volumi e le prime file impegnate in una danza selvaggia. Avrebbe potuto essere il finale ideale e invece, dopo aver liberato tutta questa tensione, c’è ancora tempo per ricomporsi, con una “The Blades” lenta e sinistra, dove viene fuori tutta la capacità del gruppo nel rimanere efficaci senza puntare sulle soluzioni ad impatto.
A tratti sono leziosi, a tratti appaiono dispersivi, ma mostrano sempre di sapere quello che stanno facendo. Se impareranno a lavorare sui propri limiti e a limare certe imperfezioni, ne vedremo senza dubbio delle belle. Dal vivo sono già eccezionali, tra i migliori in assoluto di tutta questa nuova ondata.