In molti, compreso il sottoscritto, avrebbero scommesso che gli irlandesi Strypes avessero avanti a sé un futuro radiosissimo. Snapshot, album d’esordio datato 2013 e pubblicato quando i componenti della band erano ancora tutti minorenni, non solo aveva trovato ampio spazio sulle pagine delle riviste britanniche Mojo e NME, ma aveva “estorto” numerosi apprezzamenti da star di prima grandezza come Elton John, Paul Weller e Roger Daltrey. Quel disco, per quanto acerbo e clamorosamente derivativo nei suoi punti di riferimento (Who, Kinks, Yarbirds, Jam e Dr. Feelgood), era attraversato da una vibrante urgenza che si sposava perfettamente all’incoscienza della gioventù. Purtroppo, il capitolo successivo, Little Victories (2015) aveva in parte ridimensionato la bella sensazione dell’esordio: più contiguo a certo brit pop (Arctic Monkeys?), il sophomore aveva gettato acqua sul fuoco, come se gli Strypes, incerti sulla strada da prendere (facciamo i rockers o cerchiamo di piacere a tutti?), fossero rimasti fermi al bivio, perdendo tutte le certezze che la loro beata gioventù aveva fatto proprie. Spitting Image conferma oggi che quell’esitazione è diventata una modalità espressiva e che la band, decisamente maturata da un punto di vista compositivo, ha consapevolmente deciso di tenere il piede in due scarpe. Spiego. Il disco non è affatto brutto, anzi; tuttavia, l’impressione è che Ross Farrelly e soci abbiano scelto definitivamente la via del compromesso. Da un lato, il tentativo di replicare l’urgenza iniziale, in parte anche centrato; dall’altro, la volontà di sdoganarsi dalla nicchia e di cercare consensi più ampi, ammiccando spesso e volentieri al pop rock più piacione. Tolti due riempitivi posti a fine disco (le inutili Mama Give Me Order e Oh Cruel World) le restanti canzoni sono indubbiamente ben confezionate, certificando l’abilità della band a sfornare melodie irresistibili (Grin And Bear It e Easy Riding su tutte). Tuttavia, la sensazione è quella che l’immediatezza sostanziale di un tempo si sia trasfigurata nella ruvidezza formale di qualche arrangiamento, e che il disco, salvo rari casi, sia più frutto di furbette elucubrazioni da tavolino che dell’istinto selvaggio della gioventù per il rock’n’roll. Peccato, perché episodi come (I Need A Break From) Holydays (c’è profumo di Jam nell’aria) e le sfuriate punk’n’roll di A Different Kind Of Tension e di Turnin’ My Back testimoniano di una band che avrebbe tutti i numeri per puntare ai piani alti del brit sound. E’ il condizionale che rovina tutto: potrebbero, ma evidentemente non vogliono.