La pandemia ha probabilmente imposto alla storia un corso che sarebbe stato altrimenti del tutto diverso. La fine dei Thegiornalisti per lanciare la carriera solista di Tommaso Paradiso (un avvenimento che, senza ricorrere eccessivamente al senno di poi, era già in nuce all’interno del loro ultimo Love) è alla fin fine passato quasi del tutto sotto silenzio. Svaniti nel nulla Marco Primavera e Marco Antonio Musella, che avevano pure tentato una stentata dichiarazione per cui sarebbero andati comunque avanti, complice la delusione dei primi singoli pre-Covid (diciamocela tutta: “Non avere paura” e “I nostri anni” erano brutte anche per gli standard di chi aveva accettato di buon grado la svolta Pop) e la successiva serrata dei locali italiani, siamo arrivati all’uscita di Space Cowboy senza quel senso di attesa che pareva pienamente giustificato se tutto ciò fosse accaduto due anni prima.
Parlo per me, ovviamente, perché so benissimo che la maggior parte del pubblico che ama definirsi “competente” ha smesso di seguire all’indomani di Fuori campo. In tanti sono inorriditi di fronte ad operazioni come “Pamplona”, assieme a Fabri Fibra (che, occorre ricordarlo, uscì ben prima che iniziassero tutti a sbavare dietro al Rap) o peggio ancora “Riccione”, dopo il quale fu forte l’impressione che i nostri avessero fatto il passo più lungo della gamba, andando a superare una linea sacra tra ciò che possiede o meno dignità artistica e morale.
Non l’ho mai pensata così. Potete fare gli snob finché volete, appuntarvi sul petto la medaglia del “Io li conoscevo quando eravamo in dieci ai concerti” oppure “Li ho visti suonare all’Ohibò” (questa è per il pubblico milanese) ma, per quanto mi riguarda, la sostanza non cambia. Vol.1 e Vecchio potranno anche essere considerati dischi di culto ma se all’epoca non se li filava nessuno un motivo c’era ed era, molto banalmente, che non erano abbastanza buoni. In quegli anni c’erano tante cose interessanti, l’Indie (quello che aveva ancora un minimo di senso chiamare così) era all’apice della sua gloria; se ne fosse valsa la pena, di sbavare dietro a quei dischi, credete che non l’avremmo fatto?
Con Fuoricampo cambia tutto ma succede perché Tommaso Paradiso scopre di essere soprattutto un grande autore Pop, si affida alle persone giuste (il ruolo di Dario Faini in questo senso risulta più che fondamentale) e soprattutto non ha paura di scrivere canzoni che possano piacere a tutti, anche a quelli che conoscono solo Claudio Baglioni. Ci siamo indignati a più non posso, io stesso a volte mi sono vergognato, ma se “Riccione” o “Maradona y Pelé” sono brutti pezzi allora non so davvero di che cosa stiamo parlando.
Space Cowboy riprende da lì ma la vera sorpresa è che il pericolo di flessione che si era intravisto pare rientrato.
In queste undici canzoni c’è tutta la potenza della sua scrittura, la facilità disarmante con cui conquista una semplicità che è solo apparentemente semplice. C’è tanta maniera, soluzioni che appaiono banali e gli intervalli melodici sono bene o male sempre quelli. Eppure, impossibile dire che questo disco non abbia potenziale. I tormentoni funzionano alla grande, sia quando si gioca la carta della Power Ballad (“Magari no”, “Tutte le notti”) sia quando si spinge sull’acceleratore (“Silvia”, “La stagione del cancro e del leone”). In questo senso, siamo di fronte ad un grandissimo disco Pop, che riprende a piene mani la tradizione italiana, quei modelli a cui il suo autore non ha mai fatto mistero di volersi richiamare (da Dalla a De Gregori, da Vasco a Carboni) e li declina in maniera più fresca e attuale, a tratti banalizzandoli ma sempre e comunque con risultati eccellenti. E a questo giro, sorpresa gradita quanto inaspettata, infila addirittura un paio di tracce che anelano ad una scrittura “alta”, da cantautore vero: l’iniziale Guardarti andare via” e “Lupin”, pur con un vestito sonoro da musica leggera, sono infatti insolitamente sofisticate, dicono di un artista che cerca di mostrarsi a suo agio anche su territori per lui inediti.
Ha fatto tutto assieme all’amico Federico Nardelli (importante anche per il lavoro con Gazzelle) e c’è un solo featuring (decisione inusuale, di questi tempi), quello dell’altro amico Franco126 sulla vendittiana “Amico vero”.
È un disco che come al solito anela alla leggerezza, a partire dalla stessa immagine del titolo, un inseguire i piaceri semplici della vita, che siano una mangiata con gli amici o una giornata al mare, che è stata più volte scambiata per disimpegno ma che in realtà è la cifra tematica ed esistenziale di un artista tutt’altro che stupido o superficiale e che, cosa abbastanza rara soprattutto in Italia, ha sempre vissuto il successo coi piedi per terra (l’impressione è che, al di là dell’uso senza dubbio furbo e calcolato dei Social, l’uomo non sia poi così diverso dal personaggio). Sono tanti i riferimenti al nazionalpopolare (Fellini, Verdone, Lupin, Concato, Nanni Moretti, ecc.) ma senza quell’ansia di inseguire a tutti i costi il contemporaneo che ha già di fatto reso vecchie una buona metà delle cose uscite in campo It Pop negli ultimi anni.
È un disco accomodante, certo. È un disco che può piacere a vostra madre e a vostra nonna, ovvio. Ma di nuovo, perché dovrebbe essere un male? Tommaso Paradiso non è più una next big thing, non va più di moda ed è probabile che si sia già avviato quel percorso che lo porterà a breve nel consesso degli artisti mainstream tipo Marco Mengoni, Tiziano Ferro e Cesare Cremonini, i cui dischi si trovano negli Autogrill e che sono normalmente schifati da coloro che ritengono di capirne di musica. Che poi fosse necessario uscire dal gruppo per raggiungere questo tipo di risultato non ne sono tanto sicuro; in fin dei conti importa poco: il disco è bello e il tour andrà bene. Tutto il resto, sono elucubrazioni di poco conto.