Il rischio della recensione agiografica era dietro l’angolo. L’indubbia grandezza del personaggio, uno che ha tracciato le coordinate dei southern rock, inventando un suono, e il fatto che fosse morto a maggio di quest’anno suggerivano un articolo celebrativo a prescindere dal contenuto di Southern Blood, album postumo, in uscita nei negozi in questi giorni. Invece, è bastato un solo ascolto del disco, per capire che, si, la recensione sarebbe stata esaltante, ma, anche, che ogni parola contenuta nell’articolo sarebbe stata vera. Non solo per la statura dell’artista o perché ci ha lasciati da poco, ma perché Southern Blood è incredibilmente bello. Anzi, probabilmente il disco più bello dell’intera carriera solista di Gregg Allman. Inciso a marzo 2016, nei mitici Fame Studios a Muscle Shoals, in Alabama, l’album è stato prodotto da Don Was (Rolling Stones, Van Morrison, Lucinda Williams, etc) e ha visto il contributo in sala di registrazione del chitarrista Scott Sharrard (già nei The Chesterfields) e dell’intera sezione fiati che aveva già suonato nel live Back To Macon. Nonostante la debilitazione fisica di Gregg, già da tempo malato e ormai prossimo alla morte, Southern Blood non sembra risentirne: non si tratta, dunque, di un canto del cigno triste solitario y final, ma di un brillante tassello conclusivo di una carriera straordinaria. Certo, il disco è attraversato da quel senso di nostalgia che sempre anticipa una perdita, ma nonostante il mood talvolta meditabondo, Southern Blood non perde un briciolo della sua energia, acquistando semmai ulteriore fascino. In scaletta un solo brano originale (il singolo My Only True Friend) e nove cover scelte con intelligenza fra la musica che da sempre appassionava Gregg. Ne risulta un disco che, pur carico degli afrori sudisti di cui sono impregnati gli studi Fame, riesce a essere estremamente vario nella proposta, mostrandoci un musicista che, a dispetto del precario stato di salute, ha ancora tanta voglia di stupire. Non si spiegherebbe, ad esempio, la scelta anomala di Once I Was di Tim Buckley, ballata da Goodbye And Hello del 1967, qui riletta con un arrangiamento che sposta leggermente gli accenti e che la rende ancor più bella dell’originale. Così come risulta strano, ma azzeccatissimo, il recupero di Going Going Home di Dylan, traccia minore da Planet Waves, resa struggente da un’interpretazione vocale di Gregg col cuore in mano e da una scintillante tessitura soul di fiati e steel guitar. Il disco, fin qui bellissimo, non cede, però, un briciolo della sua bellezza alla tentazione del riempitivo. Black Muddy River dei Grateful Dead (da In The Dark) consegna ai posteri un altro pezzo di storia: una canzone già di suo stratosferica trova nuova linfa vitale nel sangue sudista di Gregg; così come I Love The Live I Live, scritta da Willie Dixon e resa celebre da Muddy Water, sposta il baricentro dell’album verso un ruvido swamp blues, col quale la voce nerissima di Allman va a nozze. Le sorprese, però, non finiscono: Willin’, scritta da Lowell George e presa dal primo album dei Little Feat, è carica di epicità e nostalgia, mentre Blind Bats e Swamp Rats di Johnny Jenkins suona come un torbido voodoo blues tutto fiati e sudore. Out Of Left Field, dal repertorio di Percy Sledge è Muscle Shoals in purezza, mentre Love Like Kerosene, a firma del chitarrista Scott Sharrard, eccita gli animi con un rock blues in salsa swamp, che richiama inevitabilmente alla memoria i Creedence Clearwater Revival. Chiude la struggente Song For Adam, scritta da Jackson Browne (presente anche come ospite), e brano che Gregg ha sempre accostato alla figura del fratello Duane immortalato nel verso “Still it seems he stopped singing in the middle of his song”. Sono lacrime di commozione. Resta un ulteriore appunto da fare: la già citata iniziale My Only True Friend, scritta per l’occasione dallo stesso Allman, è talmente bella da colmare il nostro rimpianto di profonda tristezza: chissà quali altre grandi canzoni Gregg ci avrebbe potuto regalare, se il destino crudele non si fosse accanito con cieca stupidità. E qui, chiudo, per evitare di sbracare nel retorico.