Texani di Austin, nati nel 2007, i Fire From The Gods, dopo svariati cambi di line up, giungono al loro terzo album in studio, con una formazione finalmente stabile, capitanata dall’iconico e dotatissimo cantante Aj Channer. A prenderli sotto la propria ala protettrice, oltretutto, è Zoltan Bathory dei Five Finger Death Punch, che è riuscito a inserirli nelle corpose fila della Better Noise Music, etichetta sotto la cui egida suonano numerosi gruppi di rock mainstream americano (tra cui proprio i Five Finger Death Punch).
Ed è proprio al mainstream che si rivolge la proposta dei FFTG, band che non nasconde il proprio amore per il nu metal, il genere che informa l’intera scaletta del disco. I texani, quindi, creano una miscela sonora dalle radici immediatamente riconoscibili, imbastardendo il metal con numerose dosi di hip hop, dance hall, reggae e una spruzzatina di soul. Il risultato è un disco indirizzato soprattutto alle giovani generazioni, in particolar modo quelle che vivono in un limbo posto esattamente a metà strada fra suoni grintosi e melodie di facile presa. Il tutto, per quanto ben fatto, possiede, quindi, un tiro essenzialmente radiofonico, che potrebbe conquistare l’ascoltatore medio, quello che preferisce spigoli arrotondati da ritornelli acchiapponi, ma che, alla fin della fiera, deluderà fortemente tutti quelli che amano il metal in purezza e bordate capaci di lasciare il segno.
Per carità, le dodici canzoni in scaletta palesano un approccio consapevole e mostrano una band che conosce a menadito le regole del gioco: i riff potenti ma tutto sommato innocui, l’uso furbetto della contaminazione, lo sviluppo lineare ed efficace di canzoni che non riservano alcuna sorpresa a un orecchio allenato. In definitiva, l’unica dose di qualità contenuta in questa operazione poggia esclusivamente sulle spalle di Aj Channer, cantante di colore, la cui voce calda e seducente, e l’abilità nel gestire le linee vocali, regala i pochi palpiti di una scaletta che non riserva soprese e che sembra destinata all’anonimato artistico. Così, Soul Revolution resta un disco solido ma prevedibile, ben fatto ma senza pathos, e, quindi, sostanzialmente inutile.