E degheden degheden degheden... Ecco, ad un profano il sound di Johnny Cash fa pressappoco così, immutato ed immutabile. Poi evoca spianate di praterie con bovini al pascolo, costate di manzo cotte alla brace accompagnate da autobotti pieni di birra con bicchiere della staffa annesso. Ma tutto questo per gli ascoltatori più superficiali. Per quelli che lo amano invece, entrare nel mondo di Johnny Cash equivale a mettersi in comunione con i demoni di una esistenza intera, di quelli che ci lasci le penne, per intendersi. Canzoni che per un certo qual modo sono ammantate di spiritualità, ma di quella che latita nelle chiese, però, e per questo più vera e sentita. Come quella dei bambini, sincera.
Se magari qualche fesso avrà pensato che Cash fosse stato un reazionario e forse anche fascio perché vestito di nero (scusate ma qui sulle nostre amate sponde ANCORA OGGI si ragiona così) avrà un moto di sorpresa nell’ascoltare quello che Brian Owens ha fatto alle canzoni di Johnny. Spiritualità, quale altra parola ci possiamo accostare ? L’anima, bravi.
E di Soul si tratta. Del Soul of Cash, come recita la copertina del nuovo album del citato Brian Owens, sette brani, i più famosi, per 34 minuti di viaggio sbattuto in faccia ai farisei di ogni ordine e grado. Owens qui si è ricordato della lezione che Ray Charles fece al country in un album del 1962 ed ha agito di conseguenza; non solo, ha alzato di un ottava le tonalità per rendere i pezzi adatti per la bisogna. Un Cash nero e negro nel vero senso della parola, canzoni in puro stile Stax, quindi largo impiego di fiati e stonfi sui rullanti, ruvide come lo era la sua voce, solari come quando Cash inneggiava al Signore. Una sotto traccia gospel che si fa più marcata via via che l’album va avanti: immaginate Cash accompagnato da Odetta al posto di June Carter e avrete un’idea di quel che sto raccontando. Figlio di un pastore di Ferguson, Missouri, Owens ha preso il country di Cash, lo ha trasfigurato e ne ha fatto uscire fuori tutto il blues di quei brani, ci ha messo il sudore, la polvere di quelle strade solcate da furgoncini scalcagnati e la passione di un Otis Redding.
Strani frutti nei solchi del disco, sette come già detto, giacché l’ottava è un originale scritto da Owens, ma niente a che vedere con quelli cantati da Billie Holiday, qui i frutti sono belli sani, freschi e pronti per essere gustati. Tutti.