“L’intera struttura dell’industria consiste nell’industrializzare la distribuzione della musica in modo da renderla una comodità; le persone però amano pensare alla musica come ad un qualcosa che suoneresti assieme ai tuoi amici in una stanza”.
A guardare Sabaka Hutchings sul palco, non si può dubitare della verità di queste parole, da lui stesso pronunciate di recente. Se ne sta comodamente sul lato sinistro del palco, soffiando nel suo sassofono quasi ininterrottamente per un’ora e mezza e tirando fuori tutta quella meraviglia sonora per cui è giustamente da anni uno dei più apprezzati musicisti della scena Jazz contemporanea.
Recentemente i suoi Sons of Kemet, forse la creatura, delle tre che frequenta, con cui ha trovato la maggiore libertà espressiva, hanno annunciato che si scioglieranno al termine di questo tour. Non è chiaro se si tratti di un semplice cambio di formazione o di una scomparsa vera e propria; fatto sta che in una scena musicale che vive di immediatezza, improvvisazione e interazione continua dei suoi protagonisti, ci possa stare che le formazioni nascano e si evolvano a ritmi superiori alla media. Che poi, a ben guardare, i Sons of Kemet sono in giro da dieci anni, hanno pubblicato quattro dischi e la line up l’avevano già cambiata anche in precedenza, con la fuoriuscita di Seb Rochford e Oren Marshall dall’organico originale. L’ultima variazione, oltretutto, risale a poco più di un mese fa: con Tom Skinner stabilmente impegnato con gli Smile, il vuoto lasciato ad una delle due batterie è stato riempito da musicisti diversi in poco tempo.
Black to the Future è uscito lo scorso maggio per Impulse! ed è stato un lavoro importante, capace di mettere il Jazz e l’Afrobeat da sempre espressi dal quartetto al servizio di una matura coscienza politica, un modo di portare avanti la narrazione della comunità afroamericana in modo niente affatto stereotipato, le rivendicazioni sociali inserite all’interno di un più vasto spettro storico e culturale. La data del Magnolia è una delle quattro che il gruppo terrà nel nostro paese (ci sono anche Fano, Trento, e Roma, mentre ad agosto saranno anche a Locorotondo) ed è il secondo passaggio a Milano in poco tempo: a novembre suonarono infatti al Fabrique, nell’ambito di una serata gratuita che costituì, a quel tempo, uno dei pochissimi eventi in piedi dell’era pandemica.
Questa sera a disposizione c’è il palco piccolo, una scelta che, per quanto logisticamente forse un po’ azzardata (di gente ce n’era, si poteva anche tentare lo stage principale, soprattutto per evitare di tenere le persone ammassate in una delle serate finora più calde dell’estate) è se non altro funzionale dal punto di vista della resa sonora, normalmente qui si sente meglio.
In apertura Veezo & Kidd Mojo, due artisti italiani che hanno carriere distinte (il primo è un beatmaker ed un pianista Jazz, il secondo un producer e bassista) ma che suonano spesso insieme, accompagnati dal batterista Gianluca Pellerito. Nella mezz’ora che hanno a disposizione si esibiscono in brani strumentali dove è soprattutto il Synth ad avere un ruolo preponderante, con la sezione ritmica a modellare pattern dinamici e convincenti. È un Jazz tutto sommato standard, con la componente elettronica a dare un tocco di modernità ma nel complesso le cose che ascoltiamo non si discostano molto da stilemi predefiniti. Tutto sommato convincenti, comunque, l’ideale per scaldarsi in vista degli headliner.
Lo schema di un concerto dei Sons of Kemet è molto semplice: ci sono due batteristi che dettano il ritmo (questa sera ad affiancare Edward Wakili-Hicks c’è una donna che non conosco ma mi dicono che non fosse presente alle date di giugno) e che preparano il terreno per le scorribande di Shabaka Hutchings e Theon Cross. Quest’ultimo con la sua tuba ha un ruolo duplice, ora riempie con le note basse i fraseggi solisti del sassofono, ora si fa solista lui stesso, sia suonando da solo sia dialogando con Shabaka. Quello che colpisce è il modo in cui riescono a riempire il suono pur essendo solo in due ma è un discorso che vale per tutta la band: i Sons of Kemet sono in quattro ma non hanno bisogno di nessun altro, da soli hanno già l’impatto e la profondità di un’orchestra intera.
La proposta, nonostante spesso sia Shabaka a prendersi la scena con parti non semplicissime, prive di un preciso schema melodico, a tratti rumorose e quasi dissonanti, è comunque fondata sul ritmo trascinante di un Afrobeat che a volte sconfina nell’Hip Hop, per cui non stupisce vedere un pubblico straordinariamente coinvolto, saltare e ballare nei momenti più intensi. Del resto quando viaggiano tutti assieme a pieno regime e si lanciano nei temi dei loro brani più importanti, da “In Memory of Samir Awad” a “My Queen is Albertina Sisulu”, da “In Remembrance of Those Fallen” a “Throughout the Madness, Stay Strong”, si capisce che il loro Jazz, per quanto declinato in forme contemporanee, è tutt’altro che inaccessibile, le canzoni sono di fatto piene di melodie accattivanti.
L’interazione tra i quattro è profonda, a colpire è soprattutto il modo in cui gestiscono i tempi e le pause, coi fiati a volte a rimanere soli sulla scena, dialogando nei fraseggi solisti per poi scatenarsi all’entrata improvvisa della sezione ritmica; il tutto senza che tra i vari episodi in scaletta ci sia mai uno stacco vero e proprio, di fatto per quasi novanta minuti si assiste ad un unico viaggio, un’unica suite.
C’è poi un momento, tra i migliori della serata, in cui Shabaka rimane da solo con un flauto di legno, suonandolo con un’intensità tale da far percepire la dimensione quasi fisica delle note.
Al termine gli applausi sono scroscianti e le acclamazioni ininterrotte, per cui il gruppo ritorna e regala una splendida “Afrofuturism”, degno sigillo ad un concerto che è senza dubbio tra i migliori visti quest’estate.
Che sia con gli Ancestors, coi The Comet is Coming o coi Sons of Kemet, Shabaka Hutchings sta raggiungendo l’obbiettivo importante di portare un genere notoriamente di nicchia ad interagire con mondi ad esso estranei, provocandone l’apprezzamento anche da parte del pubblico più vicino al Rock, al Pop e alla scena alternativa. E tutto questo, attenzione, senza minimamente andare ad intaccare la qualità e la profondità della proposta. Leggi: potranno anche andare di moda in questo momento, ma rimangono pur sempre un’eccellenza assoluta.
Photo courtesy: Lino Brunetti