Negli Stati Uniti il country è sempre stato definito da una sorta di classicismo antidiluviano, da un afflato nostalgico che profuma di fattoria, praterie, strade polverose e recinti per cavalli, e che rinfocola, anno dopo anno, una devozione incrollabile nei confronti dei numi tutelari del genere. Questa cultura reazionaria e inossidabile da noi ha attecchito sotto forma di passione, ma i molti che amano le sonorità roots possiedono una visione necessariamente diversa, in cui l’idolatria a ogni costo lascia il posto a un approccio più ragionato ed europeo.
In questo contesto, si sarebbe tentati di liquidare Songwriter, nuovo album di inediti di Johnny Cash, morto vent’anni fa a Nashville, all’età di 71 anni, non come un doveroso omaggio a un’icona country, ma, nella migliore delle ipotesi, come un tentativo disperato di tenerlo inutilmente in vita e, nella peggiore, come una cinica operazione commerciale.
All'inizio degli anni '90, Cash, come molti dei suoi colleghi più anziani, era troppo vecchio per essere considerato cool, ma ancora troppo giovane per essere onorato come padre della patria. Gli anni '80 erano stati duri e tumultuosi per il musicista originario dell’Arkansas: mentre la figlia Rosanne flirtava con il successo grazie a un approccio crossover, lui ristagnava nella mediocrità, sia per i ripetuti periodi di riabilitazione sia a causa della cessazione del rapporto con la Mercury Records.
In questo periodo di stasi, nel 1993, Cash incise alcuni demo di nuove canzoni agli LSI Studios, allora gestiti dalla figliastra e dal genero. Sessioni semplici, quasi scarne: solo la chitarra e quella voce singolarmente stentorea, che aveva acquisito un tocco di tenerezza dovuta alla fragilità della mezza età.
Poi, la svolta, quando, nel decennio successivo, the man in black iniziò una fruttuosa collaborazione con Rick Rubin, sfornando un filotto di dischi leggendari (gli American Recordings), trovando finalmente e giustamente il suo posto nell’empireo dei grandissimi della musica country, e acquisendo, oltre tutto, fama internazionale.
A cagione del nuovo corso, quei demo del ’93 rimasero chiusi nel cassetto, finché John Carter Cash, l'unico figlio di Johnny e June, li trovò e si chiese cosa avrebbe potuto fare con questa raccolta di canzoni. Nasce così Songwriter: la voce e la chitarra di Cash vengono isolate e ripulite dalla polvere, e quindi affidate a un gruppo eterogeneo di assi del genere (Marty Stuart, Vince Gill, Dave Roe, Pete Abbott, oltre a Dan Auerbach) che hanno risuonato i brani per farli rivivere nella versione che oggi tutti possono ascoltare. Potere della tecnologia.
La traccia di apertura "Hello Out There" suona troppo moderna per identificarsi con il songwriting di Cash, sembra un tentativo di mettere the man in black in connessione con un futuro che non ha mai conosciuto e vicino al suono postmoderno di Sturgill Simpson. L’effetto è suggestivo, ma poco veritiero.
Fortunatamente gli impulsi revisionisti si limitano solo a questa canzone, mentre nelle altre tracce Cash torna a mostrare la propria personalità e a ispirare gli arrangiamenti della band. "Poor Valley Girl" è una lettera d'amore a June calda come l'asfalto di Nashville ad agosto, "I Love You Tonite" una ballata da capogiro e "Drive On", un inno empatico per i suoi coetanei che sono stati segnati dalla follia del Vietnam ma hanno comunque trovato una strada verso il futuro. Cash torna a vivere in queste sue canzoni, è il protagonista assoluto, un songwriter che, anche in un periodo non certo glorioso, ha saputo dare voce alla sua umile e tumultuosa storia, e a quella sua esistenza, in cui ha provato di tutto, la povertà, la fama (la bellissima "Spotlight"), la dipendenza, l’amore totalizzante per June, la forza salvifica della musica ("She Sang Sweet Baby James", indiretto omaggio a James Taylor).
Il potere degli American Recordings derivava per buona parte dalla riconoscibilità della narrazione, da una raccolta di brani noti, cioè, che una voce preziosa del passato plasmava in un affascinante gioco di karaoke, in cui ci si stupiva della bravura di un artista capace di affrontare un songbook, talvolta lontanissimo dalla tradizione.
In Songwriter, invece, c’è la riscoperta dell’ordinario, del modo in cui un sessantenne apparentemente al punto più basso della sua carriera guarda indietro alla sua vita per meravigliarsi di cose semplici: l’amore, la famiglia, il fascino della sua terra, la sorpresa di essere sopravvissuto, nonostante tutto. Queste canzoni, probabilmente, non sarebbero state in grado di innescare la miracolosa resurrezione avvenuta grazie a Rick Rubin, ma ci ricordano la persona reale che era Cash, così forte e così vulnerabile, verace romanziere di vite vere, traboccanti di sentimento e di dolore.
In tal senso, Songwriter è un disco indispensabile, che la tecnologia, in questo caso veramente al servizio della musica, ha riportato in vita, regalando ai fan canzoni belle, appassionate, attraversate da sincera umanità. Impossibile sapere se Cash avrebbe apprezzato, e se avrebbe condiviso questa forma definitiva che il progresso ha dato ai brani in scaletta, tenuti per lungo tempo a impolverarsi nel buio di un archivio. Di sicuro c’è solo che, lungi dall’essere scarti, queste canzoni rappresentano un momento di storia che meritava essere riscoperto.