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REVIEWSLE RECENSIONI
04/12/2017
U2
Songs Of Experience
Niente di nuovo sotto il sole, intendiamoci: queste tredici canzoni [...] sono da un certo punto di vista il trionfo del manierismo, scritte e studiate a tavolino per piacere moderatamente a tutti, per esaltare gli ascoltatori distratti e per non urtare troppo la sensibilità di chi nella musica cerca ancora un rifugio dal mondo.

Difficile, quando si parla di un disco nuovo degli U2, riuscire a rimanere concentrati sul lavoro in questione, senza imbarcarsi neppure per un attimo in una infinita disamina su quel che rappresentano oggi come band, dai confronti col passato remoto e recente alle diatribe sulla effettiva opportunità di un pensionamento anticipato.

Mi dà fastidio, contribuirà ad allungare il pezzo ma può essere doveroso contestualizzare: per quanto mi riguarda, gli U2 come band, come progetto che, gusti e preferenze a parte, hanno dato un contributo fondamentale alla storia della musica, sono terminati dopo “Pop”. Si fossero sciolti a quel punto, sarebbero stati celebrati dai più e si sarebbero risparmiati gli strali velenosi degli anni successivi (non che a quel tempo non ce ne fossero, eh!).

Quel che è venuto dopo lo giudico come, a mio modestissimo parere, dovrebbe essere giudicato: dischi di mestiere confezionati benissimo, perfetti per le radio e per la massificazione industriale del mercato, con qualche sporadico ma puntuale guizzo da campioni veri (leggi, almeno uno o due brani superlativi in ogni album).

Niente di scandaloso, insomma: è la parabola di ogni gruppo che abbia superato i quindici anni di carriera e i sette dischi in studio, con tutte le variabili annesse e connesse di un pubblico sempre più volubile e di un mondo musicale in continua mutazione.

Questo “Songs of Experience” arriva dopo il mastodontico tour celebrativo di “The Joshua Tree”, un carrozzone artistico e mediatico che ha risvegliato i torpori degli haters di tutto il mondo ma che, a detta di chi lo ha visto, ha avuto molto più senso e coerenza di quello che ci si sarebbe potuti attendere alla vigilia.

Era un disco già annunciato, questo qui: “Innocence + Experience” non era solo il nome del tour del precedente lavoro ma richiamava esplicitamente un’opera di William Blake “Songs of Innocence and Experience”, appunto), con i nostri che avevano esplicitato la citazione e anticipato l’arrivo della seconda parte.

Sono passati tre anni ma il filo conduttore rimane: non solo la copertina ma anche i temi delle canzoni rivelano la volontà di seguire un disegno comune: se nel primo Bono si concentrava su una rievocazione delicata e nostalgica della sua giovinezza dublinese, dal rapporto coi genitori alle prime scoperte musicali, dai Clash ai Ramones (l’innocenza, appunto), stavolta ci si trasferisce nell’universo adulto, tra relazioni ormai mature e consapevoli e i problemi di un mondo sempre più complesso e vulnerabile: la crisi siriana, il problema dei rifugiati, l’elezione di Trump ma anche una fugace incursione nella sua vita adulta, dal rapporto con la moglie ad un misterioso incidente stradale avuto di recente dal quale sarebbe uscito miracolosamente vivo. Da questo punto di vista, il termine “esperienza” risulta alquanto azzeccato dunque.

Come al solito si fanno le cose in grande: team di produzione di prestigio, con una triade principale composta da Ryan Tedder, Jacknife Lee e il ritorno dello storico Steve Lillywhite, una pletora di ospiti illustri dei quali non sempre si nota la presenza, da Julian Lennon a Lady Gaga, da Kendrick Lamar (un featuring che si dipana a cavallo dei due singoli “Get Out of Your Own Way” e “American Soul”) alle HAIM, con le quali hanno scritto “Lights of Home”.

Il paradosso però è quello dei nostri tempi: coinvolgere un mare di gente famosa ed esperta per realizzare un lavoro che suoni il più genuino e scarno possibile. Come e più del precedente, “Songs of Experience” vive di chitarra, basso e batteria, qualche tastiera qua e là, qualche fiato a puntellare le strutture e un’elettronica dosata con equilibrio e col timore di esagerare. Un disco essenziale, dunque, ma di un’essenzialità costruita curando i dettagli fino all’eccesso. E attenzione, non è detto che sia un male: il risultato finale è ottimo ed è più che giusto che se ne sia andata l’antica spontaneità: i quattro irlandesi sono ormai dei cinquantenni milionari che fanno quello che vogliono. Ve li immaginate a giocare ancora ai ragazzini che provano in garage?

Più che altro, bisognerebbe lodare il fatto che, dopo anni e anni a inseguire la rivoluzione sonora, a millantare chissà quali traguardi e a produrre un mare di mediocrità, proprio nel momento in cui si sono semplicemente messi a scrivere e a registrare canzoni, abbiano trovato la quadratura del cerchio.

Sputatemi pure addosso ma non mi piaceva così tanto un disco degli U2 dai tempi di “Pop”. Proprio da quel disco dopo il quale, a mio parere, non c'è praticamente stato più nulla. E se oggi va di moda sparare a zero verso tutti i grandi nomi che ormai sappiamo che faranno il botto ogni volta a prescindere, io dico che questa volta Bono e soci sono riusciti ad andare dritti al punto.

Niente di nuovo sotto il sole, intendiamoci: queste tredici canzoni (che poi sarebbero quindici nell’edizione Deluxe ma una è quella “Ordinary Love” che conosciamo da anni) seguono le stesse soluzioni armoniche e melodiche a cui la band ci ha abituato negli ultimi anni, sono da un certo punto di vista il trionfo del manierismo, scritte e studiate a tavolino per piacere moderatamente a tutti, per esaltare gli ascoltatori distratti e per non urtare troppo la sensibilità di chi nella musica cerca ancora un rifugio dal mondo.

Eppure, per una volta, non c'è solo questo. Bono del resto è sempre stato una persona vera. Lasciamo perdere le sue battaglie politiche, il personaggio stucchevole che si è costruito (e che gli è stato costruito) addosso. Io rimango fermamente convinto che oltre tutto questo ci sia ancora un uomo che si diverte ancora a scrivere canzoni e a stare sul palco, un uomo che sa di essere un padre e un marito prima ancora che una rockstar. Bono in questo disco è ancora quello del “buco a forma di Dio”, per citare una delle sue interviste più celebri, dove aveva detto una cosa che tutti pensano ma che pochi hanno il coraggio di ammettere.

Ascoltate “You’re The Best Thing About Me”, col suo piglio bello carico, il suo riff a la Keith Richards e il ritornello che per una volta entra nel modo giusto. Al di là di tutto, che uno a cinquant’anni suonati sia ancora assieme a sua moglie (che tra parentesi è la stessa con cui usciva alle superiori) e ne sia ancora sufficientemente innamorato da scriverle una canzone… boh, non so voi ma a me pare una gran cosa.

Al di là di questo, che è un valore aggiunto ma, direte giustamente, i dischi si giudicano da altro, le canzoni qui dentro non mancano affatto. A partire dalle tastiere leggere che tengono su “Love is All We Have Left”, col gruppo che per una volta sceglie di non partire col brano veloce e ruffiano e vince la scommessa alla grande, proseguendo con le chitarre leggermente Country di “Lights of Home”, un brano che ha il groove primordiale del periodo americano di “Rattle and Hum”. E ancora, una “Summer of Love” anche questa scarnificata fino all’osso e che nonostante tutto vince la sfida del ritmo. “Red Flag Day” è uno degli episodi migliori, con un ritornello epico che ne esalta tutta la carica drammatica, il racconto di due rifugiati e del loro amore più forte di ogni avversità, un episodio “politico”, se vogliamo, in cui per una volta viene lasciata fuori la retorica (purtroppo altrove non succede la stessa cosa, vedi nei due singoli Anti Trump ma pazienza, sopporteremo come abbiamo sempre fatto).

Ben riuscita è anche “The Showman”, un brano divertente in cui il cantante racconta per l’ennesima volta del suo essere uomo di spettacolo, in un eterno conflitto tra naturale finzione e desiderio di autenticità. Anche qui la melodia è azzeccata, anche qui si ottiene il massimo risultato col minimo sforzo. Così come molto bella è “The Little Things That Give You Away”, una ballata sullo stile di “You Can’t Make It On Your Own” con un Bono decisamente sugli scudi. Lo stato di grazia del singer merita un discorso a parte: ultimamente criticato per le sue performance dal vivo (anche se poi a detta di chi c'era, l’ultimo tour non è andato male), ha semplicemente fatto tesoro degli anni che passano e di una voce non certo usata in modo impeccabile in passato e ha tirato fuori una prestazione maiuscola, puntando tutto su urgenza ed espressività, utilizzando al meglio i mezzi che attualmente possiede ma dando l’impressione che cantare, per lui, sia ancora di più una questione di vita o di morte rispetto a prima.

Non tutto è rose e fiori, comunque: i singoli non sono proprio imprescindibili, nonostante un Kendrick Lamar in grande spolvero anche se collocato in posizione marginale. “American Soul” è bruttina e quell’altra, “Get Out Of Your Own Way” ha un bel piglio nella strofa ma poi non si riprende più. Per non parlare poi di “The Blackout” la prima cosa che abbiamo sentito, che pur coinvolgente e ammiccante al punto giusto, è l’ennesima riproposizione della ricetta di “Vertigo” o “Elevation”, vale a dire il peggior approccio degli U2 al rock da stadio (o forse il problema è il rock da stadio in sé? Non so rispondere, scusate). In coda alla scaletta l’entusiasmo rischia di scemare, con alcuni brani non molto riusciti come “Landlady”, “Love is Bigger Than Anything in Its Way” e la conclusiva “13 (There is a Light)” che è in pratica una versione alternativa di “Song For Someone”, dal disco precedente, ma decisamente più scarica.

In fin dei conti non è male, considerate le aspettative. “Songs of Innocence”, dopo un impatto iniziale pietoso, si era un po' risollevato e al momento ci sono tre o quattro pezzi che considero di buono, se non di ottimo livello. Qui si va decisamente meglio e credo che senza troppo strafare i nostri siano riusciti nell’impresa di incidere un lavoro che potrebbe avere senso anche se considerato nel più grande contesto della loro intera carriera. Ovviamente in tanti diranno che mi sono bevuto il cervello e che sono il solito esagerato. Mi sta benissimo, ci mancherebbe, c'è molto di soggettivo nella valutazione di un disco. Mi piacerebbe solo una cosa, però: che tutti quelli che nelle prossime settimane sentenzieranno che “l’ultimo U2 è una cagata pazzesca” si siano degnati di ascoltarlo per intero almeno due o tre volte. Allora potremo parlare.