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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
31/01/2022
The Derek Trucks Band
Songlines
Riascoltare Songlines è un lancio senza paracadute verso differenti forme di espressione musicale, dove blues, rock, jazz, world music e soul si intrecciano aprendo finestre su mondi lontani nello spazio e nel tempo.

Il 2006 è stato cruciale per Derek Trucks. Ora siamo abituati a vederlo nell’ensemble allargato, la Tedeschi Trucks Band, che, insieme alla moglie Susan, spopola da Revelator (2011) in poi, dandoci la sensazione, anzi la certezza di essere uno dei migliori live act su questo pianeta. Quasi sedici anni fa, invece, nasceva Songlines, primo capitolo della Derek Trucks Band ampliata a sestetto con l’entrata a pieno regime di Mike Mattison, vulcanico vocalist di Minneapolis in precedenza cofondatore degli Scrapomatic, un trio con attitudini rock blues in circolazione da metà novanta.

La novità di avere un cantante fisso, una manciata di pezzi più sbilanciati marcatamente verso la forma canzone e una virata artistica che porta ad abbracciare ancora più generi, immergendosi a tratti nel soul e sfiorando pure il reggae, conduce il gruppo alla maturità andando ben oltre alla classificazione di jam band acquisita grazie ai lavori precedenti, fin dall’esordio omonimo del ’97, senza per questo sminuire la versatilità e le sbalorditive qualità tecniche dei propri musicisti.

Vi è un labirinto di sentieri invisibili che serpeggiano in tutta l'Australia, conosciuti dagli europei come "Dreaming Tracks" -“Tracce di Sogno”- o "Songlines" -Vie dei Canti-; dagli aborigeni come "The Footprints of the Ancestors" -Impronte degli Antenati- o “The Way of the Law” -La Via della Legge-.                                      

Songlines, dal titolo dell’omonimo romanzo di Bruce Chatwin, le cui citazioni pervadono il booklet dell’album, rimando a un’antichità che si fa presente ed è luminosa traccia per il futuro, è un’opera completa, a partire dall’intrigante copertina dai richiami ancestrali di Jeff Wood, e porge dodici tracce ammalianti, di difficile collocazione, tanto da far venir voglia di rispolverare il termine world fusion per definire cotanta esuberanza sonora. Sicuramente l’indimenticabile impronta percussiva dei magici Yonrico Scott e Count M’ Butu, quest’ultimo tristemente scomparso il Luglio scorso, l’incredibile senso del ritmo del bassista Todd Smallie e la profonda forza ispiratrice del compianto multistrumentista Kofi Burbridge consentono di avere solide basi e offrono un tocco di eleganza e raffinatezza. Poi c’è Derek Trucks, predestinato dalla nascita, già per quel nome frutto della passione irrefrenabile dei propri genitori verso i Derek and the Dominos, con Duane Allman nel cuore e l’Allman Brothers Band come scelta di vita.

Una meravigliosa storia di “crossroads”, incroci, con il gruppo di Macon, dallo zio batterista Butch a Oteil, fratello di Kofi. L’entrata in pianta stabile di Derek nell’ABB rappresenta la chiusura del cerchio e quanto più di vicino possa esistere alla risurrezione di “Skydog” come membro della band, qualcosa di davvero trascendentale.

Le influenze dei fratelli Allman ovviamente condiscono l’intero Songlines, e la sorpresa più grossa è vedere come si mescolino vorticosamente con tutto il vasto background musicale di Derek. Il jazz intinto di gospel dell’iniziale "Volunteered Slavery", dal repertorio del “professor” Roland Kirk, è un tuffo nelle calde acque dell’afrobeat, con la sua poesia cantata dai componenti del combo, mentre la Gibson del leader miagola lamenti blues post-bop.

Armonia, ritmo e melodia vanno a braccetto in "I’ll Find My Way", le cui liriche toccano livelli elegiaci commoventi - “a volte le tue lacrime sono il tuo ponte verso il cielo” - in un brano profondo, che analizza come la redenzione sia un tragitto irto di ostacoli, e nel traditional, attribuito a Skip James, "Crow Jane", dove Mattison evidenzia ogni suo languore soul. Ma è in "Sahib Teri Bandi/Maki Madni" che arriva la prima sorpresa: quasi dieci minuti per un viaggio che lega la civiltà occidentale a quella orientale per merito di questa rilettura scritta originariamente dallo storico compositore pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, forse il più grande artista sufi nel Punjabi. Sentire la sinergia tra la chitarra e il flauto di Kofi Burbridge regala attimi di eternità ed è difficile staccarsi da queste vibrazioni positive al termine del “medley”.

 

“Songlines è un treno che corre dalla musica classica indiana al Delta blues, il percorso quindi è molto lungo e con parecchie fermate, ma ha una direzione ben precisa, a differenza dei precedenti album. E’ il nostro primo disco che ho piacere di ascoltare senza mettermi a rimpiangere come avrei potuto rifare alcune parti”.

 

Le parole di Trucks sono una precisa dichiarazione d’intenti e il cammino descritto porta infatti ora a Chevrolet, che attinge dalle radici della tradizione americana per un classico registrato nel 1930 da Memphis Minnie, "Can I Do It For You", ripreso con parte del testo e titolo cambiato trent’anni più avanti da Ed e Lonnie Young e reso popolare da Taj Mahal poco dopo il settanta. Una versione breve, ma incendiaria, con le percussioni ad accompagnare il magnetico dobro di Derek, mentre Mike Mattison enfatizza nuovamente tutta la sua vocalità.

La ripresa del bellissimo reggae di "Toots and the Maytals, Sailing On" è incantevole e apre le porte all’aggressiva "Revolution", in cui il produttore Jay Joyce si cimenta anche come autore ed evidenzia la sua anima rock, e poi ci si catapulta in un altro standard, "I’d Rather Be Blind, Crippled and Crazy", rivisitato con freschezza, prima di godere della parte del lavoro autografa, che denota senza ombra di dubbio la crescita dell’ensemble.

In effetti è difficile trovare difetti nella tumultuosa "All I Do", straripante scorribanda tra blues e southern rock, imbrattata di  r&b e momento magico per l’esaltazione di ogni elemento, tra un via vai di tamburi, con wah wah e clavinet che fanno a gara a imitarsi l’un l’altro, e l’incessante botta e risposta, nella parte conclusiva, tra slide e flute.

La capacità di creare un’altalena di emozioni è la gran dote di questi personaggi e a calmare le acque ci pensa il tenue bozzetto acustico "Mahjoun", un’invenzione strumentale di Trucks. Basta un dobro sfavillante in un rilassante tappeto di percussioni per volare alto, emanando profumo di Africa, già richiamato dall’appellativo ammiccante a una particolare “marmellata” marocchina.

Una rilettura sentita e sofferta di "I Wish I Knew (How It Would Feel to Be Free)", accorato inno contro ogni tipo di discriminazione razziale, è più che mai attuale in una band multietnica che fa della diversità di culture la propria forza ed è rasserenante ascoltar la squillante voce del figlioletto di Derek al termine della canzone, quasi a voler significare la prosecuzione delle battaglie contro le ingiustizie da parte delle successive generazioni.

Basterebbe già tutto questo per definire Songlines indimenticabile, ma l’ascetica "This Sky", altro pregiatissimo frutto della collaborazione di tutti i musicisti, chiude l’album riconfermando la maturità artistica raggiunta e addirittura aprendo nuovi orizzonti, a conferma di quanto tale opera sia stata un crocevia dirimente per il gruppo. L’incipit di questo gioiellino conclusivo si immerge direttamente in un capolavoro immenso, quella "In a Silent Way" che dall’ideazione di Zawinul e la concretizzazione di Miles Davis è passata anche per le mani dei Santana, il tutto senza mai dimenticare la lezione di John McLaughlin; il pezzo, superata l’illuminazione “divina” iniziale, si snoda magnificamente tra atmosfere jazz, soul e gospel spalmate su un caldo groove percussivo. Organo, piano elettrico e flauto convivono pacificamente e avvolgono il canto di Mattison per concedere il finale alle armoniose suggestioni create dalla Gibson di Trucks.

Esiste uno straordinario documento dal vivo, Songlines Live, DVD pubblicato alcuni mesi successivi all’uscita dell’LP, che rispecchia fedelmente la potenza e spiritualità della Derek Trucks Band. L’avventura di questi ragazzi proseguirà nel fluido Already Free (2009) prima di chiudere i battenti con Roadsongs (2010), che cattura il meglio di due show al Park West di Chicago. Seguirà la creazione di un connubio tra i coniugi Derek e Susan per il progetto Tedeschi Trucks Band, una delle mescolanze musicali più riuscite dell’ultimo decennio, come accennato all’inizio.

A partire da Songlines la stella di Derek Trucks brillerà alta nella costellazione dei grandi chitarristi, ricevendo attestati di stima dai giganti della sei corde. L’artista di Jacksonville suonerà con, fra i tanti, Buddy Guy, Johnny Winter, Sonny Landreth, Eric Clapton e Carlos Santana (a proposito degli ultimi due, circolano indiscrezioni su una possibile collaborazione che sfocerebbe in un disco in trio prevalentemente strumentale, ispirato a colonne sonore western del Maestro Morricone e a “soundtracks” di film di fantascienza) e riceverà la benedizione dall’incoronato, incontrastato, di nome e di fatto, Re del Blues: “E’ il migliore che abbia mai ascoltato”, parola di B.B. King.