“La vita è reale. La vita è seria. Non è una commedia. Le persone sono vere e hanno un cuore, che se ne rendano conto o meno. Non si tratta di salire sul palco e cantare quello che ti passa per la testa in quel momento, è tutta un'altra cosa mettere il cuore in mano alle persone. Voglio potermi togliere i vestiti davanti a tutti e dire: ‘Vedete? Sono proprio come voi’. È questa la cosa da fare, non le stronzate che ci dicono i giornali. È sempre stato e sarà sempre così”.
(John Martyn, 1973)
L’esistenza di John Martyn è particolare, intensa, densa di avvenimenti, anche traumatici, fin dall’inizio. Nato a New Malden, nel Surrey, a un tiro di schioppo da Londra, vive la sua infanzia alternandosi tra Scozia e Inghilterra. I genitori sono grandi artisti, entrambi cantanti d’opera: la madre è belga di origine ebrea, il padre è scozzese. Dopo un periodo tormentato, divorziano nel 1953, quando il piccolo Iain David McGeachy, questo il suo vero nome, ha solo cinque anni. L’oscillare tra due Paesi vicini, assimilabili per usi e costumi, ma sostanzialmente diversi in alcuni aspetti della cultura e del linguaggio, arreca sconforto e scarsa stima di sé nel ragazzo, che, per farsi accettare, adatta il suo accento a seconda del contesto o della compagnia, scegliendo fra quello più raffinato di Glasgow e quello inglese meridionale. Questo profondo scompenso interiore alimenta il desiderio di solitudine come scudo per il proprio travaglio, influisce sulle scelte, sulle passioni, e lo spinge, neanche maggiorenne, ad abbandonare proprio la Glasgow Shawlands Academy per trasferirsi nella capitale britannica e proseguire il sogno di diventare un musicista. Se la cava bene con la chitarra, influenzato da un caposcuola come Bert Jansch, e bazzica i folk club finché nientepopodimeno che il patron della Island Records, Chris Blackwell, non lo nota e lo mette subito sotto contratto. Arrivano i primi LP, il matrimonio e il sodalizio artistico con la cantante Beverley Kutner, che sfocia in due dischi in coppia, il trasferimento temporaneo a Woodstock, la collaborazione con il mitico Levon Helm e l’innamoramento per il cantautorato americano, il jazz, l’R'n'B.
Musicalmente parlando la partnership con la moglie non funziona, John pare appannato, il loro secondo lavoro in coppia purtroppo di azzeccato ha solo il titolo, The Road to Ruin (1970), infatti iniziano i problemi con l’alcool e fa fatica a staccarsi dal pessimismo cosmico insito in lui, anima fragile angosciata dall’esistere in un mondo che gira al contrario di come vorrebbe. Tuttavia riesce a oltrepassare queste debolezze gettandosi nel lavoro, prima pubblicando il notevole Bless the Weather (1971), prevalentemente acustico e, almeno così narra la leggenda, inciso in soli tre giorni; poi è il turno di Solid Air, anch’esso co-prodotto con John Wood e concepito velocemente, in una settimana, un album esemplare per l’equilibrio stilistico raggiunto. Immaginate il groove, le armonie celestiali di blues e jazz all’interno di una dimensione di classico folk-rock.
La title track è meravigliosamente affascinante da questo punto di vista: la voce di Martyn evoca sofferenze ancestrali, si percepisce il male di vivere, mentre il sound è rarefatto, a tratti financo sperimentale, tuttavia riesce a risultare tristemente avvolgente. Il vibrafono di Tristan Fry e il sassofono sussurrato di Tony Coe toccano il cuore lasciando odor di malinconia e disperazione. Una canzone fosca e angosciante, dedicata al caro amico Nick Drake, allora ancora vivo, nonostante la sua incurabile depressione, “I know you, I love you, I will be your friend, I will follow you anywhere even through solid air”, e maledettamente preveggente, “You've been getting too deep… I don't know what's going on in your mind but I know you don't like what you find”.
“Stai andando troppo giù…non sono a conoscenza di cosa passi nella tua mente, ma so che non ti piacerà ciò che troverai”, sono parole che esprimono rassegnazione per un destino ineluttabile, già segnato, e l’amarezza prosegue nell’aura agreste di "Over The Hill", in cui il raggiungimento della collina è metafora della dipartita da questa terra, dove droghe, affetti e affanni conducono verso l’unica direzione possibile, quello della notte infinita, il riposo eterno che elimina ogni sofferenza. A stemperare tale drammaticità intervengono, riuscendoci, il mandolino, l’autoharp e il violino rispettivamente di Richard Thompson, Simon Nicol e Sue Draheim. Il “fantasma sonoro” degli epici Fairport Convention e Pentangle aleggia comunque per tutta l’opera, visto anche il delizioso contributo al contrabbasso di Danny Thompson, le cui note cupe contribuiscono a colorare le composizioni di un che di spettrale e claustrofobico. "Don’t Want to Know", ove il dolore si intreccia alla speranza in un continuo dialogo, ne è giustappunto fulgido esempio, intensa ballata folk-rock avvolta in un’atmosfera onirica che si tinge di sonorità jazz e progressive grazie al tocco di Rabbit, al secolo John Bundrick, vero funambolo dell’organo elettrico.
"Non sono soddisfatto, come non lo sono stato dei precedenti, anche se dal punto di vista vocale è stato un passo avanti. Non ho mai cantato così bene come in questo disco. Ma sono convinto che all'epoca in cui l'ho fatto sarei stato in grado di cantare e suonare ancora meglio”.
La maniacale tendenza alla compiutezza rimane un cruccio di Martyn, però è innegabile quanto la sua voce sia perfetta in questo lavoro; struggente, cavernosa, infervorata, come nell’indiavolata e ululante "I’d Rather Be The Devil", fiammeggiante cover di "Devil Got My Woman" dal repertorio di Skip James, laddove l’antichità del blues si fonde nella più moderna “psichedelia tribale elettronica”. Le magie del clavinet e l’incessante martellare delle congas pervadono il tessuto ritmico e introducono il caratteristico suono effettato e vibrante della chitarra trattata con l’echoplex, un vero e proprio marchio di fabbrica dell’artista. La discesa agli inferi prosegue e si rivela senza paracadute, allorquando ci si avvicina al termine della canzone e il basso unitamente al contrabbasso si intrecciano spasmodicamente.
Quando tutto sembra devastante e devastato giunge invece un tocco di romanticismo, con "Go Down Easy" e, più avanti in scaletta, nella piccola meraviglia acustica "May You Never", occasioni per mettere ancora in mostra le doti da chitarrista di Martyn, il cui nome d’arte nasce in modo singolare, quando il suo agente, all’esordio nel mercato discografico, gli consiglia di trovare un appellativo che possa avere appeal. Ebbene, il giovane ragazzo, appena giunto a casa, si guarda intorno, vede una chitarra Martin e, come si usava negli anni sessanta, modifica una lettera: a Martyn aggiunge poi John, per dar risalto alla sua natura di uomo qualunque.
Le inquietudini comunque non svaniscono. "Dreams By The Sea", terrificante trasposizione di un incubo, ribolle nuovamente di torrido blues, ammansito da sax e piano elettrico che fanno virare il motivo su sonorità funk soul, subendo probabilmente l’influenza di Isaac Hayes, uscito poco prima -1971- con un “masterpiece”, il celeberrimo Theme From Shaft. E si rimane sul delta del Mississippi per un pirotecnico finale con "The Man In The Station", brano in crescendo carico di immagini e sentimenti controversi dal punto vista lirico, che trasforma un iniziale mood nostalgico in un potente R'n'B fino a "The Easy Blues", nel quale viene usato il canto come un “flusso di coscienza” e, diversamente dal precedente, si parte in maniera energica per poi evaporare in delicate riflessioni jazz con utilizzo pure di un sintetizzatore. In effetti quest’ultima traccia in verità ha due anime, nasce dalla fusione di "Jerry Roll Blues" e "Gentle Blues", quasi a voler ancora una volta evidenziare le diverse personalità insite nell’autore.
La (forse) voglia eccessiva di sperimentare e la ritrosia nei confronti del music business si ripercuotono negativamente sulla carriera di John Martyn che perde vendite e seguito, subito dopo il vertice di Solid Air. A ciò si aggiungono l’abuso di alcool e sostanze e il divorzio, che incanalano tristemente il musicista negli anni ottanta. Phil Collins ed Eric Clapton, i quali lo adorano fin dagli esordi - a tal proposito è da brividi la rilettura di "May You Never" che “Manolenta” incide nel ’77 in Slowhand - contribuiscono al suo rilancio partecipando a Glorious Fool (1981), primo album realizzato per il colosso WEA, però non c’è pace per l’artista britannico: da un lato non gli dispiace provare l’ebbrezza del successo, dall’altro non riesce a scendere a compromessi e odia gli arrangiamenti scelti per rendere le sue opere maggiormente commerciali. L’attività continua tra alti, The Church with One Bell, inaspettato ed emozionante disco di cover (1998) e bassi, Piece by Piece (1986), oltre a un paio di raccolte di canzoni reincise senza ispirazione. Il 2001 sembra farlo uscire dal baratro delle dipendenze e dalla depressione, con il sorprendente rientro in classifica prestando la voce a "Deliver Me" di Sister Bliss, versione dance di una vecchia hit dei Beloved, ma due anni dopo una caduta accidentale provoca l’infezione a una gamba che ne richiede l’amputazione chirurgica appena al di sotto del ginocchio. Sembra tutto sempre più complicato, eppure arriva il commovente On The Cobbles del 2004, con ospite Paul Weller.
La storia di John Martyn termina cinque anni dopo, in un giorno di fine gennaio a causa di un’insufficienza respiratoria acuta. Un’esistenza segnata da abusi, solitudine e depressione. Situazioni che però sapeva magicamente incanalare nella musica, sua ragione primaria di vita. Un uomo dannatamente fragile, di una sensibilità unica che, parafrasando il suo capolavoro, nella sua introspezione e viaggio solitario riusciva a percepire la solidità dell’aria.