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REVIEWSLE RECENSIONI
11/04/2025
Adwaith
Solas
Un album doppio di 23 canzoni. Ne hanno di cose da dire, le Adwaith, e tutte in gallese. La ricerca linguistica delle radici si unisce alla sperimentazione artistica in un disco che lascia davvero a bocca aperta.

Un giro del mondo in ventitré tracce, in lingua cymraeg. Solas, il nuovo album delle Adwaith, oltre a essere un’opera monumentale, straordinaria e che nessuno dovrebbe lasciarsi scappare, risulta difficile da liquidare con parole differenti. Se invece è ammissibile l’impiego dell’aggettivo glocal in ambito musicale, la capacità cioè di fare leva sulle opportunità offerte dal resto del mondo per aggiungere valore al proprio metro quadro (in questo caso il Galles, nazione che nell’insieme fa più o meno tanti abitanti quanto una media capitale europea) le probabilità di trasmettere la bellezza di un disco di questa caratura sono più alla nostra portata.

Che poi, a dirla tutta e con una malcelata punta d’invidia, che in uno stato costitutivo e storico della Gran Bretagna si rinunci a cantare in inglese per prediligere un idioma celtico locale comprensibile a (a essere ottimisti) qualche centinaia di migliaia di persone, a noi italiani (a eccezione forse degli amanti di tutta quella paccottiglia fantasy o dei cultori del dio Po e altre minchiate leghiste) ci viene da schiumare di rabbia per lo spreco consumato.

Eppure la formula delle tre meravigliose donne di Carmarthen - Hollie Singer (voce e chitarra), Gwenllian Anthony (basso, synth e mandolino) e Heledd Owen (formidabile batterista) - non fa una piega. Un originalissimo e evocativo indie-rock di prima scelta, a cavallo tra il post-punk e il pop ma, in questa occasione, condito con elettronica e persino abbellito da leziosi ammiccamenti a certe soluzioni armoniche mediorientali (tanto da lambire, in più di un’occasione, il rischio di tracimazione nel kitsch, nell’accezione positiva - sempre che esista - del termine), interamente cantato nel dialetto del posto, cioè quello del Galles.

E se è di un problema di comunicazioni interrotte e di secessionismo culturale nei confronti del resto del pubblico d’oltremanica che si tratta, per noi neolatini è tutto grasso che cola, finalmente liberi dall’annoso problema della comprensione dei testi (che già, con le band inglesi, il ricorso ai sistemi di traduzione online ci leva più di una castagna dal fuoco). In poche parole, il lavoro di ricerca nelle proprie radici linguistiche nella culla del rock non può non avere un significato sottinteso di contrapposizione al mainstream imposto dal mercato della nazione capofila, per di più ai tempi della Brexit.

 

Sappiamo solo (googlando, ça va sans dire) che Solas significa illuminazione. Un titolo che non può non coincidere con il destino di un disco della maturità, un’opera in grado di lasciarsi indietro l’ingenuità di una band agli esordi - quella di Melyn, il primo album - o le incertezze sulle direzioni da prendere - quelle di Bato Mato, il secondo. Non caso Adwaith significa reazione. Sarà per questo che Solas si profila come un concept ambizioso e senza compromessi di una band dalle idee chiare, anche se pur sempre dalle parole a noi incomprensibili. Non ci resta che accontentarci, afferrare il mood e le vibrazioni e tutti gli spunti offerti da quello che si profila come uno dei dischi più interessanti di questo 2025. 

Intanto, la scelta di una pubblicazione così fitta di materiale suona piuttosto in controtendenza ai tempi delle sfilze inconcludenti di singoli e della smania di presidio costante dei propri profili sulle piattaforme di musica liquida, in uno scenario in cui il rischio di oblio è all’ordine del giorno. Al momento di andare in studio, per la band gallese l’imbarazzo della scelta è stato superato con la decisione di pubblicare quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un album doppio. Una tracklist che fa anche a pugni con la riproduzione digitale, se consideriamo il frequente ricorso al passaggio tra brani in sequenza senza soluzione di continuità, espediente che penalizza per forza di cose lo streaming. In Solas emerge comunque la crescita delle Adwaith, sempre più unite nello sguardo comune sulle cose, sempre più pratiche nella padronanza dei loro strumenti, voce compresa, sempre più interessanti negli arrangiamenti (qui estremamente variegati) e nella resa dei brani.


I richiami e le atmosfere di una tracklist così corposa sono innumerevoli ed eterogenei. Nonostante la difficoltà di trascrivere i titoli, possiamo però distribuirli tra le principali classificazioni che ci sembrano più congeniali, giusto per fare un po’ d’ordine. In Solas si susseguono brani tipicamente indie rock, in alcuni casi decisamente alternative (“Tristwch”, “Wyt Ti Ar Y Lein”, “Heddiw / Yfory”, “Purdan”, “Sanas” e soprattutto la splendida “Sain” con il suo coretto uh-uh), canzoni che confermano la matrice post punk, a volte dichiaratamente elettrico, altre con un taglio elettronico (“Pelydr-X”, “Coeden Anniben”, “Solas”, “Planed”, “Y Ddawns”), una corposa sezione di graziose e talvolta irriverenti composizioni indie-pop se non pop tout-court (“Teimlo”, “Ti”, “Gofyn”, “Paid Aros”, “Miliwn”, “Addo”) che alleggeriscono l’ascolto dei momenti più cupi, e infine richiami alla tradizione dream folk/pop e ethereal wave (“Y Diwedd”, “MWY”, “Gorllewin Pell”, “Deffro”), reminiscenza sicuramente favorita dal timbro vocale che ci rimanda ai fasti della 4AD degli anni 80.

Sin da un primo ascolto, Solas si caratterizza come l’apice (almeno ad oggi) di un terzetto di musiciste sicure di loro stesse, del loro stile e delle loro potenzialità. Una sfida lanciata ad un mondo in cui fare breccia con l’originalità è sempre meno alla portata di tutti e che le Adwaith superano grazie a un entusiasmo e una voglia di sperimentazione senza confronti. Un messaggio coraggiosissimo e proiettato al futuro, un piccolo capolavoro nato dall’estro di una band giovane ma pienamente consapevole di aver già trovato un sound unico e di aver occupato un posto, nel panorama musicale, che non è mai stato di nessun altro.