Tutto si può dire di Peter Gabriel, tranne che non sia un artista ambizioso. Da leader dei Genesis, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ha contribuito a forgiare l’immaginario del nascente movimento Progressive attraverso testi dall’altro quoziente letterario e un originale senso per la rappresentazione. Da solista, grazie a un’insaziabile curiosità e a una bramosia di sperimentazione senza pari, ha saputo incorporare nelle sue canzoni elementi di avanguardia, elettronica e musica etnica.
Lasciati i Genesis nel 1976 dopo l’estenuante tournée di The Lamb Lies Down on Broadway, Peter Gabriel taglia immediatamente i ponti con il passato. «Se volete scoprire quale sarà il mio futuro nella musica», dichiara in diverse interviste, «esso sarà nel maggior numero di situazioni possibili». Il viaggio di Peter inizia nel 1977 con (Car), prodotto da Bob Ezrin, prosegue con (Scratch), prodotto da Robert Fripp, e giunge a un primo felice approdo con (Melt), prodotto da Steve Lillywhite, un album epocale e ideale summa dei suoi primi cinque anni di navigazione in solitaria. Ma Gabriel non si accontenta e decide di proseguire nel suo personale percorso di ricerca musicale prima incidendo l’ostico (Security) e poi dedicandosi alla colonna sonora del film di Alan Parker Birdy.
Questi continui mutamenti e questa perenne voglia di immergersi in nuove realtà, trovano il loro approdo più felice e compiuto in So, uscito nella primavera del 1986. Lanciato da “Sledgehammer”, il singolo più gioioso e accattivante di tutta la carriera di Gabriel – a sua volta abbinato a uno dei video più intelligenti e carichi d’inventiva degli anni Ottanta – l’album è la sintesi perfetta delle intenzioni del musicista inglese: unire gli opposti. Alla spensieratezza e all’accessibilità melodica di molte canzoni fanno da contraltare le forti tematiche trattate e una costante innovazione sonora. Un’innovazione che diventerà il marchio di fabbrica dell’ex Genesis e che sarà fonte di ispirazione per molti. Proprio a partire da So si inizierà a parlare di «suono alla Peter Gabriel»: un amalgama pastosa e intrigante, fortemente europea ma allo stesso tempo debitrice della tradizione melodica mediorientale, basata sull’interazione tra i sintetizzatori e le partiture ritmiche ispirate alla tradizione percussiva africana.
Scelta fondamentale, fu quella di affidare la produzione artistica al canadese Daniel Lanois, musicista raffinato e tecnico del suono sensibile e attento, fido collaboratore di Brian Eno nei migliori lavori degli U2 e responsabile della rinascita artistica di importanti big come Bob Dylan, i Neville Brothers, Willie Nelson e Emmylou Harris. Detto di “Sledgehammer”, anche i singoli successivi meritano un’attenzione particolare. “Big Time” è una canzone spensierata e allo stesso tempo crudele – il testo ironizza sul materialismo e la sete di successo imperante –, caratterizzata da una forte influenza Soul di matrice Motown, mentre “Red Rain”, che apre il disco, tratta un tema scottante per gli anni Ottanta come le piogge acide. Altra gemma è lo struggente duetto con Kate Bush in “Don’t Give Up”, una ballata pianistica dove le voci dei due protagonisti si inseguono, si toccano e si abbracciano. Qui Gabriel ci presenta un quadro di familiare rassegnazione, dove un giovane uomo disoccupato esprime il disagio causatogli dall’isolamento dovuto dalla perdita del lavoro, conseguenza diretta dalle scelte effettuate dal governo di Margaret Thatcher. Tocca allora alla compagna, interpretata da Kate Bush, il compito di consolarlo con le parole del ritornello: «Don’t give up», non arrenderti. Ma l’apice di tutto il disco è la conclusiva “In Your Eyes”, forse la più bella e intensa canzone d’amore scritta dall’ex Genesis. Epica senza essere autoindulgente, parte con un melodia di piano che sembra influenzata da Debussy e poi, quando si aggiungono gli altri strumenti, si trasforma in una festa africana, guidata dal basso, dalle percussioni e dai vocalizzi di un Yossou N’Dour che qui fa il suo debutto in una produzione discografica Occidentale. Gli ultimi due minuti della canzone – che nella sua versione dal vivo è talmente dilatata e ricca di’improvvisazione da raggiungere il quarto d’ora – sono tra i più intensi dell’album.
Anche gli episodi minori e meno celebri di So sono di alto livello. Qui, però, le atmosfere si fanno sinistre e notturne e alle melodie accessibili della prima parte dell’album si contrappongono pezzi dilatati e ipnotici, fortemente onirici, dove le parole – spesso ripetute fino all’ossessione – arrivano a raggiungere l’elevato potere meditativo di un mantra. Sono canzoni che approfondiscono un discorso legato alla musica Ambient e alla sua interazione con le percussioni: è guardando in questa direzione che vanno accolti brani come “Mercy Street”, “We Do What We’re Told (Milgram’s 37)” – che racconta e denuncia gli esperimenti di Stanley Milgram con l’elettroshock – e “This Is the Picture (Excellent Birds)”, rifacimento di un pezzo scritto da Gabriel assieme a Laurie Anderson e già presente, in forma sostanzialmente simile, nel suo Mister Heartbreak del 1984.
Sono canzoni potenti, quelle di So, in grado di entrare in confidenza con l’ascoltatore grazie a una naturale carica melodica, per poi veicolare messaggi di fratellanza, rispetto e cooperazione. Ma anche di denuncia per i soprusi, le scelte sbagliate e subdole, le ingiustizie. In un epoca in cui si ha sempre più paura di chi è diverso, di chi appartiene a una cultura lontana, senza sforzarsi di capire e porsi le giuste domande, ecco, dischi come questo aiutano a fare chiarezza e abbattere ogni pregiudizio, dando un senso ai concetti di scambio e interazione tra le persone e le culture. Da qualsiasi parte del mondo esse provengano.