Snake Oil è un termine idiomatico statunitense che, sulla scorta dei balsami miracolosi venduti dagli imbonitori nel vecchio West, nel linguaggio odierno è divenuto una metafora per indicare qualcosa di fraudolento, una millanteria, un fake, insomma un qualcosa che fa apparire ciò che in realtà non è.
A fornire un titolo così suggestivo alla loro ultima fatica discografica sono The Darts, un’all female band che, nel corso degli anni ha subito alcuni cambi di line up, cosicché alle storiche componenti Nicole Laurenne (organo e autrice di tutte le canzoni dell’album), Cristina Nunez (basso) e Meliza Jackson (chitarra) nel frattempo si è unita la nuova batterista Mary Rose Gonzales, proveniente dall’area di Chicago.
Snake Oil è il loro terzo album, pubblicato come il precedente dalla Alternative Tentacles, label di quel vecchio volpone di Jello Biafra, leader dei Dead Kennedys (mitico gruppo dell’hardcore punk americano anni Ottanta che ha fatto la storia con album seminali quali Fresh fruit for rotten vegetables e Bedtime for democracy). Il disco segue la pubblicazione di Me.Ow. (2017) e di I like you but not like that (2019) – LP che ricomprende forse la loro più celebre canzone: “Love You to Death”, brano presente nella colonna sonora della serie televisiva Peaky Blinders – inframezzati dalla raccolta The Darts (2018), che presenta rispettivamente il I ed il II EP della band.
The Darts sono un classico combo di garage punk, ovvero quella nicchia di musicisti per i quali il vero rock è quello che parte dagli inizi degli anni Sessanta per interrompersi a metà degli stessi Sessanta, quando, a detta di Greg Shaw (altra figura mitica della scena, prima quale patron della fanzine Who Put the Bomp, conosciuta dai più come Bomp!, in seguito produttore discografico sempre della Bomp Records, poi divenuta Voxx Records): a partire dalla pubblicazione di Sgt. Pepper dei Beatles, la musica ribelle diventa “sofisticata”, ovvero si crea una fatale dicotomia tra il rock underground ed il pop.
La cosa simpatica è che, secondo quanto riportato nel libro Pop goes to Court di Brian Southall, nel corso del processo che vide nel 1970 Paul McCartney contrapposto agli altri tre Beatles per lo scioglimento della società “Beatles & Co”, John Lennon dichiarò che una delle cause degli scontri all’interno del gruppo erano le divergenze musicali ed artistiche, poichè mentre Paul McCartney era più propenso ad un suono di matrice pop, lui e George Harrison preferivano quella definita “underground”.
Per ritrovare l’energia primordiale del rock occorre quindi rivolgersi al passato (da qui la presenza massiccia di cover dell’epoca in numerosissimi dischi di un altrettanto numero di band) sia dal punto di vista musicale (utilizzo degli strumenti, fuzz-box ed amplificatori vintage), sia sotto il profilo estetico (abbigliamento, acconciature, calzature e grafica che richiama in molti casi, per citare un prodotto più mainstream, la serie Ultra Lounge della Capitol Records).
Il sound di queste ragazze è quindi puro revival? Se è possibile usare una crasi direi nì, nel senso che la matrice garage rock viene colorata nel sound da alcune tinte goticheggianti, alla pari dei padri (ri)fondatori Fuzztones (che chi scrive ha di recente sentito al Legend di Milano, con un Rudi Protundi in ottima forma).
Nel dipanarsi dei 13 pezzi dell’album passiamo infatti da classici anthem quali la title track “Snake Oil”, a “Spy girl” e “Love Tsunami” (edita precedente su un 7” pollici con “Shit show” e un altro grando pezzo – dal vivo super energetico – come “Underground”). Meritano un plauso anche un brano come “Under the gun” e “Donne-moi tout” cantata in francese, nonché “Black Eyes” dove al giro di basso iniziale si unisce il suono dell’organo in un classico mood sixties oriented, per passare ad una quasi ballad come “You just love yourself”.
Come concludere se non con un consiglio: se vi capita di vederle dal vivo, non perdetevele, sono tra i migliori live act degli ultimi anni.