Smith e Kotzen, due nomi che letti così potrebbero dire poco a chi non conosce la storia dell’hard rock e dell’heavy metal. Loro due, però, Adrian Smith e Richie Kotzen, ciascuno nel proprio ambito, sono due leggende. Smith è, infatti, lo storico chitarrista degli Iron Maiden, mentre Kotzen, oltre ad avere una lunghissima carriera solista alle spalle, è stato membro di gruppi come Mr.Big e Poison, mica pizza e fichi.
I due, che si stimavano e conoscevano da tempo, hanno stretto un sodalizio artistico, che ha visto la luce nelle nove canzoni che compongono questo disco, tutte composte, prodotte e suonate dall’estemporaneo duo. Che non si è limitato a cimentarsi alla chitarra, strumento in cui Smith e Kotzen primeggiano, ma ha anche suonato il basso, la batteria e cantato ogni brano, avvalendosi solo del contributo marginale dei batteristi Nick McBrain (Iron Maiden) e Tal Bergman (componente della band che segue Kotzen in tour).
Un regime autarchico che ha dato frutti nobilissimi, dal momento che il disco, non solo mette in mostra l’indiscutibile abilità tecnica di due musicisti straordinari, ma anche un songwriting solido, coerente e brillante. Per non parlare, poi, delle reciproche performance vocali, così coese e amalgamate che sembra che i due suonino insieme praticamente da sempre.
Smith/Kotzen, veniamo alla sostanza, è un energico disco di rock declinato con accento hard e blues, in cui, ovviamente, la parte del leone la fanno le due chitarre elettriche. In un’atmosfera decisamente settantiana, i due amici si divertono a duellare con le rispettive sei corde, imbastendo riff muscolari e abbandonandosi a torrenziali assoli, mettendo al confronto due diverse sensibilità e carature tecniche. Non è però un mero esercizio di stile né una gara a chi suona meglio: le nove canzoni sono un trionfo di chitarre, certo, ma non c’è nulla di ridondante; al contrario, la struttura dei brani risulta perfettamente bilanciata tra aggressione sonora e melodia, ogni nota ha motivo d’essere, ogni assolo è proprio lì, dove deve stare. Nessuna canzone è concepita come un tela bianca su cui i due chitarristi possano dare sfoggio al proprio estro, perché ogni singolo brano possiede una propria anima, un mood, un suono che lo distingue dagli altri.
Si parte a cento all’ora con Taking My Chances, impetuoso hard rock, contornato da un mostruoso lavoro alle chitarre e spinto da un godibilissimo refrain dal sapore radiofonico, seguito poi da Running un altro pezzo duro e incalzante, entrambi scelti come singoli trainanti dell’album.
Due brani che spingono molto sull’acceleratore, forse un po' prevedibili, ma ottimi per entrare subito nel mood di un disco, che, da qui in avanti, riserva molte sorprese. La successiva Scars, ad esempio, rallenta di molto i giri, apre a scenari decisamente più blues, ricorda alcune cose dei Black Country Communion, grazie anche alla voce multiforme di Kotzen, che emula perfettamente il timbro di Glenn Hughes. E dalle parti del rock blues si muove anche Glory Road, un favoloso mid tempo movimentato dalle schermaglie chitarristiche dei nostri, perfettamente in sincrono anche nella suddivisione delle parti vocali.
In un disco praticamente senza sbavature, emergono anche due inarrivabili gioielli: I Wanna Stay, ruvida ballata che svetta per un ritornello irresistibile, e soprattutto You Don’t Know Me, sette minuti di grande atmosfera in bilico fra rock e blues, in cui la voce di Kotzen, per magia, si trasforma completamente, sovrapponendosi a quella del compianto Chris Cornell. Cosa che succede in parte anche nella conclusiva ‘Til Tomorrow, che chiosa il disco con un memorabile refrain e con l’ennesima battaglia a colpi di assolo.
In questa prima parte del 2021, i bei dischi rock e metal si sono sprecati, a partire dal ritorno dei Thunder e dei Dead Daisies e dall’esordio dei Dead Poet Society. Chi, però, oltre al genere, ama visceralmente anche la chitarra elettrica, non si lasci sfuggire questa uscita: è molto probabile che troverà in Smith/Kotzen uno dei suoi album preferiti dell’anno.