Nei due anni intercorsi tra “Immunity” e il suo ritorno sulle scene, Claire Cottrill non è stata del tutto inattiva sul fronte discografico: ha cantato su “Green Eyes”, brano della sua amica Arlo Parks e ha fatto lo stesso con “Lara” di Sassy 009. Poi ha conosciuto Lorde, che le ha chiesto di prendere parte ai cori del suo nuovo singolo “Solar Power”, con l’artista neozelandese che ha ricambiato il favore prestando la sua voce al singolo apripista “Blouse”. Segno, se vogliamo, di un effettivo ingresso nello stardom, che aveva avuto un preludio nel 2020 quando durante gli NME Awards era stata premiata come “Best Act in the World” ed aveva conosciuto Taylor Swift, un momento a suo dire particolarmente emozionante (“Durante la serata nessuno poteva più parlarmi perché stavo piangendo a dirotto” ha dichiarato recentemente).
Approdo naturale, se vogliamo, di un percorso iniziato quasi per caso nel 2017, quando una delle sue prime composizioni casalinghe, “Pretty Girl”, diventa una hit da duecento milioni di ascolti (il relativo video, un divertente filmato amatoriale dove si vede lei che canta e balla sulle note della canzone, è stato visto 75 milioni di volte) e proseguito con l’enorme successo del suo primo full length, “Immunity”, con i singoli “Sofia” e “Bags” a trascinare il tutto con numeri sorprendenti.
Da qui il tour, dove ha raggiunto anche i palchi dei festival più importanti in giro per il mondo, divenendo uno dei nomi più importanti di quella scena cantautorale femminile che negli Stati Uniti rappresenta ormai un fenomeno consolidato.
La pandemia l’ha colta come tutti alla sprovvista ma non l’ha messa più di tanto in difficoltà: è tornata nella casa dove è cresciuta, ad Atlanta, dove è rimasta per un po’ di mesi in compagnia della madre. Poi ha adottato un cane, “Joanie”, che ha chiamato così in onore di Joni Mitchell (chissà come la diretta interessata sarebbe contenta di saperlo…) al quale ha dedicato anche un pezzo dell’album, una strumentale intitolata appunto “Joanie” e dove, ha raccontato divertita, l’animale ha pigiato qualche tasto di pianoforte con la sua coda (per la cronaca, la cagnolina compare anche sulla copertina dell’album).
Al di là di questi aneddoti che ciascuno deciderà come valutare, è indubbio che stare con la madre le abbia offerto spunti di riflessione su lei stessa, sia nel rapporto col genitore sia nella futura prospettiva di una maternità, con i temi della sedentarietà e del recupero di una dimensione domestica a guidare in un certo qual modo la scrittura dell’album e ad essere esplicitamente trattati in brani come “Zinnias” e “Reaper”.
Un disco più pacificato, dunque? Solo a tratti, se si pensa che nell’opener “Bambi” descrive un rapporto conflittuale tra lei e la realtà in cui si muove (“I’m stepping inside a universe/Designed against my own beliefs/They’re toying with me and tapping their feet”), in “Blouse” racconta in maniera piuttosto cruda l’esperienza di essere vista come mero oggetto sessuale dagli sguardi maschili e in “Just for Today” rievoca un episodio in cui, in preda al panico, avrebbe chiamato il National Suicide Prevention Lifeline; un brano che si collega idealmente ad “Alewife”, sul disco precedente, dove condivideva con l’ascoltatore la sua lunga lotta contro la depressione ed affrontava esplicitamente il tema del suicidio.
Non che tutto questo sia finito, quindi, ma se non altro, come lei stessa ha avuto modo di raccontare di recente, ha imparato a conviverci ed è molto più serena a riguardo. Dopotutto la stessa parola che dà il titolo al disco, “Sling”, ha un significato ambivalente: indica sia l’imbragatura per portare a spasso un neonato tenendolo al petto, sia la fasciatura elastica che si usa per un braccio rotto o slogato.
Sul fronte musicale c’è stato un deciso passo avanti: l’essere divenuta un’artista di una certa consistenza l’ha portata in contatto con Jack Antonoff, che ha coprodotto il disco assieme a lei a New York e l’ha aiutata a scrivere diversi brani. Ho parlato di passo avanti ma attenzione a non darlo troppo per scontato: l’ascolto dell’ultimo singolo di Lorde, per esempio, mi ha messo in guardia contro un certo rischio di standardizzazione sonora che il leader dei Bleachers rischia di imporre, nel momento in cui sta divenendo uno dei produttori più richiesti sulla piazza.
Un rischio corso anche da Clairo? In parte sì, secondo me. Perché se è vero che l’ascolto di “Blouse” ci aveva entusiasmato (da brividi l’esecuzione in solitaria durante il Tonight Show di Jimmy Fallon), una volta avute tra le mani tutte queste dodici canzoni, ci siamo accorti che un po’ di magia è andata perduta. Chiariamo subito: dal punto di vista formale “Sling” è un disco molto più complesso e maturo di “Immunity”. Bastino le prime tracce, “Bambi” e “Amoeba”, base di pianoforte e orchestrazioni in evidenza, Pop dalle sfumature barocche con qualche leggero tocco Jazz nei passaggi strumentali, per fornire un’idea di base. Scrittura più adulta, mood più ripiegato e a tratti scuro, la leggerezza da cameretta delle prime composizioni quasi del tutto scomparsa (“Amoeba” ha comunque un ritornello più catchy).
Il pianoforte è l’elemento dominante del disco (Claire ha detto di aver scritto con questo strumento tutte le canzoni che lo compongono) e le orchestrazioni spazzano del tutto via quell’impronta Lo Fi che tanto ci aveva
affascinato del suo predecessore, sostituendolo spesso con un’impronta sonora che guarda più alle ballate in stile Sixties. C’è un tocco di piacevolezza Indie Folk solamente in “Zinnias”, un mood sentimentale che ricorda da vicino i primi Belle and Sebastian, mentre “Reaper”, tra le cose meglio definite a livello melodico, ci ha fatto ricordare il perché l’abbiamo amata così tanto dall’inizio.
Per il resto non ci sono pezzi brutti e tutto è cantato e suonato a meraviglia ma in più punti non si riesce ad evitare l’impressione che si tratti di un esercizio di stile e che il tentativo di inseguire una dimensione maggiormente Mainstream o anche solo il desiderio sacrosanto di farsi vedere cresciuta, di allontanarsi dal cliché della ragazzina acqua e sapone che compone le canzoni seduta sul letto con la sua chitarra, le abbia fatto perdere di vista la centratura di ogni singolo pezzo. Per intenderci, cose come “Wade”, “Harbor” o “Little Changes” sono molto belle ma mancano un po’ di personalità e alla lunga il tutto risulta eccessivamente ripetitivo. Quanto questo dipenda dalla “cura” Antonoff è difficile dirlo, anche se in diverse occasioni affiora il dubbio che abbia voluto trasformare Clairo in una sorta di versione Indie di Lana Del Rey (con pessimi risultati, visto che stiamo parlando di artisti con background e stili completamente differenti). Oppure non è niente di tutto questo e dobbiamo solamente pensare che Claire si sia finalmente avvicinata ai modelli che ha tanto ammirato: da Joni Mitchell a Carol King, da Carly Simon ad Elliott Smith (anche se di quest’ultimo a ben vedere non si ritrova molto).
La promuoviamo con riserva, insomma, il disco è bello ma ci si aspettavamo ben altri risultati. Se riusciremo a vederla dal vivo, siamo comunque sicuri che le emozioni non mancheranno.