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REVIEWSLE RECENSIONI
19/02/2018
Brian Fallon
Sleepwalkers
È un bel disco, “Sleepwalkers”: ti entra dentro lentamente, se si ha la pazienza necessaria di superare il primo impatto, quello che fa dire (come del resto ogni volta che esce un suo disco) che “le canzoni sono tutte uguali”. È vero, sono tutte uguali.

I Gaslight Anthem si sono sciolti, è cosa certa. Ci avevamo sperato, che l’inizio di un cammino solista per Brian Fallon rappresentasse soltanto un intermezzo piacevole, utile a ricaricare le batterie in attesa del prossimo disco della sua band. Purtroppo, nel corso di recenti interviste, il cantante e chitarrista ci ha tenuto a precisare che la storia del gruppo è giunta al capolinea: “Abbiamo lasciato dell’ottima musica dietro di noi e sentiamo che non abbiamo altro da dare, quello che dovevamo dire l’abbiamo detto. Più o meno come i Replacements: chi li volesse ascoltare oggi, ha un buon numero di dischi tra cui scegliere. Per noi è più o meno la stessa cosa.”. Non erano probabilmente le parole esatte ma il senso più o meno sì.

La verità è che il gruppo del New Jersey è rimasto vittima del solito gioco perverso che coinvolge indifferentemente pubblico e critica e che potrebbe più o meno riassumersi così: se hai fatto un disco di successo e tutti parlano di te per questo, la tua carriera è pressoché finita.

I Gaslight Anthem hanno scritto il folgorante esordio “Sink or Swim” e soprattutto “The ’59 Sound”, che li ha portato copertine prestigiose, concerti in posti sempre più grandi, culminati con l’endorsement di Bruce Springsteen, concittadino e massima fonte d’ispirazione per Brian, salito sul palco con loro a Glastonbury per suonare proprio la title track di quel disco.

Ecco, da quel momento i Gaslight sono rimasti “quelli di The ’59 Sound”; a nulla sono valsi altri dischi assolutamente convincenti e la salita a bordo di un gigante come Brendan O’ Brien, che ha firmato la produzione di “Handwritten”. Il solito ritornello del “Eh ma i primi erano meglio!” ha pian piano affossato il gruppo, i problemi personali di Brian, con la tegola del divorzio, hanno fatto il resto.

“Get Hurt”, uscito nel 2014, rimarrà così a meno di sorprese l’epitaffio di una band straordinaria, tra le poche che abbia davvero marchiato a fuoco la mia età adulta. All’epoca recensii il disco e lo feci con toni entusiasti (lo ascolto ancora moltissimo e non mi ha mai annoiato) ma ricordo perfettamente che ero una voce fuori dal coro. Ad ogni modo, il tour di quell’anno fu strano: vennero a Milano in autunno e fu forse il loro concerto più debole. Oggi sento Fallon dichiarare che all’epoca era totalmente da un’altra parte con la testa, che se fosse stato lucido avrebbe deciso di prendersi una pausa, e capisco che la mia non era stata un’impressione casuale.

Oggi, comunque, le cose sembrano essere andate a posto. “Painkillers”, l’esordio solista di tre anni fa, ha portato l’artista del New Jersey su coordinate più intime e famigliari, un tributo anche sonoro a quel rock tipicamente Sixties su cui si è formato sin da bambino. Un disco che, a dispetto del titolo, non è servito a da semplice rimozione del dolore bensì da autentica catarsi. Il suo successo, di pubblico e critica, gli ha dato quella spinta che serviva per recuperare autostima e convincersi di avere ancora un futuro come autore e performer.

Ci mancano, i Gaslight Anthem ma se lui è contento, allora lo siamo anche noi.

Questo “Sleepwalkers”, da un certo punto di vista, ha il sapore del ritorno alle origini. Alla consolle c’è infatti Ted Hutt, il produttore di “The ’59 Sound”: “L’ho chiamato perché volevo recuperare il me stesso che ero dieci anni fa, prima del successo. Volevo riscoprire quel ragazzo appassionato di musica che aveva solo voglia di scrivere canzoni.”.

Già l’opener “If Your Prayers Don’t Get To Heaven” mette le cose in chiaro, col suo andamento leggero, liberatorio, ed un testo che recupera in pieno tutta la poetica di Fallon, col suo desiderio di fuga assieme alla persona amata.

Le sonorità sono le stesse del disco precedente, con canzoni che puntano più a mostrare il loro lato Pop, essenziali sia negli arrangiamenti che nelle melodie, con quell’urgenza di riuscire, nell’arco di tre minuti, se non a salvarti la vita, perlomeno a farti intravedere che la salvezza esiste ed è là fuori da qualche parte.

Lo fa con un altro, ennesimo omaggio ai miti della giovinezza, ad un immaginario che lo ha penetrato fin nel profondo dell’anima e che continua ad essere parte di lui. “Etta James” dice esattamente questo, che ci sono canzoni che parlano della vita e che ci si può aggrappare a queste, nei momenti di difficoltà. Stessa cosa in “Neptune”, un brano musicalmente agli antipodi (ballata agrodolce la prima, cavalcata rock vicina ai primi tempi della band la seconda) ma che pesca a piene mani dalla mitologia marina che ammantava “Desolation Row”. Qua e là ci sono pure i Counting Crows”, altro grande amore giovanile (chi si ricorda di “High Lonesome”?), per un disco che ancora una volta offre una piacevole raccolta di citazioni.

C’è anche un po’ di Folk, ogni tanto: “Proof of Life”, con tanto di mandolino, non è uno dei brani più convincenti ma se non altro mette in chiaro come a Brian questa dimensione sia comunque congeniale. Ce lo aveva fatto capire anche con “See You On The Other Side”, che era già uscita come singolo e che qui arriva in chiusura; melodia dolce, atmosfera romantica per un brano che suona molto più eloquente in chiusura, alla fine di questo viaggio per “cercare di sopravvivere”, come canta in “Little Nightmares”: “Quando entrambi invecchieremo e non ci sarà più niente da dire, voglio che tu sappia che ti ho amato tutti i giorni; e quando chiuderemo gli occhi in questa vita, ti rivedrò dall’altra parte”.

Quindi alla fine andrà bene, in un modo o nell’altro. Ed è in effetti una conclusione che si riflette un po’ su tutto il disco, che suona aperto e rilassato anche nei momenti più elettrici. Il rock epico e senza compromessi tra Bruce Springsteen e i Clash (piuttosto in ombra su “Painkillers” anche se non del tutto assente), ritorna qui in misura più massiccia ma appare liberatorio, non più ripiegato su se stesso come nel recente passato. È proprio da questo punto di vista che un singolo come “Forget Me Not” può essere considerato l’esempio perfetto di quel che il suo autore cercava: recuperare l’entusiasmo e l’innocenza di quel ragazzo che scriveva canzoni.

È un bel disco, “Sleepwalkers”: ti entra dentro lentamente, se si ha la pazienza necessaria di superare il primo impatto, quello che fa dire (come del resto ogni volta che esce un suo disco) che “le canzoni sono tutte uguali”. È vero, sono tutte uguali. Compone sempre sugli stessi accordi, le progressioni e le soluzioni armoniche che usa sono sempre le stesse, i brani li distingui gli uni dagli altri dopo ascolti ripetuti, in caso contrario il senso di uniformità è onnipresente e direi che col passare del tempo sta accadendo sempre di più.

E quindi? Dove sta il problema? Quanti sono i songwriter limitati che hanno scritto decine di dischi senza mai annoiare? Se i Gaslight Anthem vi hanno entusiasmato come raramente era accaduto negli ultimi anni e se il disco precedente vi aveva convinto, allora non c’è nessun motivo per cui non dovrete amare “Sleepwalkers”. Del resto, un brano come “Her Majesty Service”, che da ballata acustica si trasforma in cavalcata epica con ritornello da scolpire sulla pietra, oppure la title track, coi suoi fiati che rimandano a certe influenze Motown degli esordi, sono già abbastanza per farci parlare di lavoro riuscito.

Certo, non tutto è bello allo stesso modo, un paio di episodi sono trascurabili e non ingranano neppure dopo decine di ascolti, qualcosina funziona meglio ma il senso di Déjà vu è in questo caso troppo fastidioso (vedi “Come Wander With Me”). Sono cose che gli perdoniamo: l’anima di Brian Fallon è pura come è sempre stata e il suo desiderio di vita brucia più che mai.

Ci sarebbe solo da riuscire a vederlo di nuovo dalle nostre parti ma qui è il solito problema: costi di produzione rapportati ad adeguato ritorno economico. Sicuramente continuare a ripetere: “Eh ma quando suonava con la band era un’altra cosa!” non aiuta nessuno…