“Questi brani sono stati ispirati dai pionieri del soul dei Sixties e dei Seventies, la musica dei quali significa davvero tanto per noi”.
Le premesse e promesse dell’accoppiata storica John/Taupin sono ampiamente mantenute in Sleeping with the Past, un’opera che profuma di R&B, un tributo ai giganti del genere come Sam Cooke, Marvin Gaye e Otis Redding, con le composizioni che mantengono peraltro una spiccata originalità e assumono una declinazione moderna per sonorità e interpretazione. Non solo la ballata strappalacrime "Sacrifice", il vigore pianistico di "Healing Hands" e la contagiosa allegria di "Club at the End of the Street", ma un progetto ben architettato, che evidenzia passione e cuore in ogni singola canzone, perfettamente inserita nella posizione giusta nella scaletta della raccolta, con un inizio, "Durban Deep", fremente, voglioso di raccontare una storia lunga dieci episodi e una conclusione raffinata, grazie a una "Blue Avenue" di classe sopraffina, molto toccante, esempio lampante di come il meglio, in un disco già di per sé notevole, dovesse ancora arrivare, proprio al termine.
La frizzante opener "Durban Deep", trascinante cavalcata midtempo di grande spessore qualitativo, quindi, già sintetizza il concetto di Sleeping with the Past, un’affascinante commistione di rock e soul che trae linfa dagli autori storici di quel glorioso periodo passato, e strizza l’occhio pure ai prosecutori di tale miscela di generi, da Hall & Oates a Billy Joel. “Andando giù, giù, giù, giù, giù, scendendo nel profondo di Durban…Non c'è pietà nel mio sonno, sento solo il trapano e il martello. Avverto il calore che uccide, scendendo per due miglia fino al cuore di Durban Deep”, canta il protagonista del racconto, ricordando il travaglio patito dai minatori di colore del Sudafrica, le terribili condizioni di sfruttamento sul lavoro alle quali erano sottoposti a Durban Deep, una fra le miniere più pericolose e profonde del mondo. Ascoltando il testo ci si rende conto del contrasto tra la drammaticità della situazione narrata e la decisa solarità della musica, quasi a tentare di sciogliere con note azzeccate la tristezza dell’argomento e fornire conforto; rimane sicuramente voluta la cadenza del ritmo, resa simile ai rumori degli operai che battono, percuotono a tempo senza sosta il suolo con i loro attrezzi.
La batteria di Jonathan Moffett è protagonista anche, e non solo, nell’intro della taumaturgica "Healing Hands" e qui, oltre alle scintille rock della chitarra dello storico partner in studio e dal vivo Davey Johnstone, entra in scena con tutto il suo carisma Elton John, nuovamente alle prese, dopo il debutto in "Reg Strikes Back", e stavolta per tutto il disco, con un pianoforte digitale Roland RD-1000, al posto del suo classico acustico a coda. Una scelta moderna, che accresce la versatilità del suono, e tuttavia lascia un poco insoddisfatti i nostalgici delle atmosfere uniche create dal normale strumento unplugged. In verità, l’artista del Middlesex ha spesso “trafficato” con sintetizzatori e un’infinita varietà di tastiere pure in passato e si palesa una decisione perfettamente adeguata al periodo e, soprattutto, alla tipologia di canzoni e atmosfere create per Sleeping with the Past.
Dopo un inizio brioso è tempo di una meravigliosa ballad, "Whispers", nostalgica e avvolgente come solo John sa fare, carezzata dalla sua voce sensuale. “Sussurri come venti freddi vicino alle ossa. Conserva il paradiso per gli amanti, lasciami solo dietro ai sussurri, bisbigli, sussurrando bisbigli”, sono frasi di malinconica accettazione per una relazione difficile, forse di breve durata, certamente al termine, parole che celebrano romanticamente e poeticamente la fine di un rapporto, magnificando il contrasto tra carnalità e trascendenza dei sussurri.
“Volevamo scrivere una canzone come quelle, top, registrate dai Drifters, uno di quei motivi alla Goffin-King. Club at the End of the Street è la cosa che più ci si avvicina e il testo di Bernie è stato fondamentale per ispirarmi".
“Quando lo ascolti ti immergi in un’atmosfera alla ‘Under the Boardwalk’ e il merito va alle melodie architettate da Elton per rappresentare al meglio le mie liriche”.
Armonia e voglia di far festa, due elementi importanti per scatenare il sing-along durante "Club at the End of the Street": un’empatia totale che si respira nelle dichiarazioni del duo John/Taupin e si rispecchia in questa instant hit, nella quale una coppia decide di trascorrere la notte in un locale cittadino, “nel club alla fine della strada…ascolti il suono di Otis e la voce di Marvin Gaye in questa stanza fumosa. C’è un juke-box che suona tutta la notte e possiamo danzare vicini vicini sotto il pulsare di una luce al neon.” Musicalmente il pezzo è molto orecchiabile, ben sostenuto dall’organo e le tastiere della pregiata coppia Fred Mandel-Guy Babylon e arricchito dal sax sgargiante di Vince Denham, mentre, se si volesse trovare un punto debole dell’LP, lasciano un po’ a desiderare la title track, invito a una lei di tranciare con il passato e lasciar perdere il suo partner dal cuore di ghiaccio, e la successiva "Stones Throw from Hurtin’", amaro resoconto di un rapporto che non funziona più. Sono entrambe meno ispirate sia per argomenti sia per sonorità, troppo poco lontane dal pop usa e getta spesso in voga negli eighties.
"Sacrifice" riporta subito a livelli altissimi il lavoro, con i suoi echi di Percy Sledge, con piacevoli sfumature rimandanti alla leggendaria Aretha Franklin, ed è curioso come passi inosservata in UK all’epoca della prima realizzazione, a Ottobre 1989, per poi balzare al top delle classifiche nazionali dei singoli e rimanervi per cinque settimane a partire dal 23 Giugno 1990, aiutata da BBC Radio One, che la inserisce in rotazione. Il detto Nemo propheta in patria finalmente diventa solo un ricordo per il musicista inglese, e il disco con due A-side (l’altra è "Healing Hands") diventa il primo number one hit (escludendo "Don’t Go Breaking My Heart" del 1976, duetto con Kiki Dee e quindi non esclusivo) della carriera nella sua terra natia. "Sacrifice" rimane una delle ballate più famose di Elton John, in grado di perforare le barriere del tempo ed essere tuttora in auge per merito di cover o rifacimenti più o meno indovinati; sicuramente colpisce al cuore nella versione di Sinéad O'Connor, la quale ha indossato e reso proprie con straordinaria sensibilità le liriche, un invito al sacrificio per mantenere salda l’unione di una coppia, uno sforzo a volte tristemente impossibile da attuare.
L’emblematico R&B intinto di gospel "I Never Knew Her Name" è un altro esempio della notevole vena compositiva presente in Sleeping with the Past, anche se quelle tastiere a sostituire spregiudicatamente i fiati gridano vendetta, ma non vi è tempo per i rimpianti poiché nella tracklist giunge "Amazes Me", una golosa caramella che sembra uscita da Let’s Stay Together di Al Green. Il solo di chitarra di Johnstone, il basso preciso di Romeo Williams e gli straordinari vocalizzi di Marlena Jeter, Mortonette Jenkins e Natalie Jackson meritano una menzione a parte per quanto riescano a trasmettere vibrazioni positive all’ascoltatore.
La produzione di Chris Thomas, un gigante della “stanza dei bottoni”, con esperienze che vanno dai Beatles ai Pink Floyd, è di gran classe, le poche sbavature presenti sono ovviamente da contestualizzare alle mode di quel frangente. L’arrangiamento di "Blue Avenue" conferma lo standard sonoro elevato, e contraddistingue una composizione pronta a entrare di diritto nello scrigno delle gemme dimenticate, da riscoprire: un motivo splendidamente nostalgico, accorato lamento per una condizione del sentimento estremamente lucida e limpida seppur nella sua infinita tristezza. “Lasciamo loro dire quello che vogliono. Tu ed io già lo sapevamo, ci vuole di più di un gioco di prestigio, tesoro, per salvarti dal Viale della Malinconia. E non serve a niente, ogni strada è persa. Tu ed io, all'incrocio del Viale della Malinconia. I cuori si scontrano, qui Il vero amore passa attraverso, ma sembra che abbiamo avuto un incidente, piccola, sul Viale della Malinconia”, racconta il compagno, con immagini e una metafora bellissime, all’ormai ex amata, lasciando intuire un riferimento alla fine del matrimonio tra l’artista inglese e Renate Blauel, prima che dichiarasse apertamente di essere omosessuale. La delicatezza del piano e del synth, l’accompagnamento soave del basso, e più avanti i ricami di una sei corde acustica, sostengono l’incedere inizialmente dolce del motivo fino all’arrivo burrascoso della batteria, suggellando un momento di struggente emozione, laddove la musica riesce a far breccia nel profondo del cuore.
Sleeping with the Past rimane un album importante nella lunga carriera di un mostro sacro come Elton John, non solo per il successo che lo consacra nuovamente, mettendo definitivamente in un angolo la crisi di vendite, ma anche e soprattutto per la rinascita creativa e spirituale, dovuta in parte alla conclusione della battaglia legale con il tabloid The Sun, reo di aver pubblicato falsità sul suo conto. Si tratta inoltre di un primo passo, anche se stentato, verso la sobrietà dopo tante dipendenze, uno step precedente di poco la vera e propria terapia di disintossicazione, avvenuta in un centro rehab a Chicago nel 1990.
Le successive due decadi vedono ad ogni modo il buon “Reg” ancora sulla cresta dell’onda, tra innumerevoli greatest hits e colonne sonore in alta classifica, con qualche disco indovinato come The One (1992), Duets (1993), Songs from the West Coast (2001), Peachtree Road (2003) e quel piccolo capolavoro, concepito insieme al mai troppo compianto Leon Russell, dal titolo Union (2010). Paiono discutibili invece dal punto di vista artistico le operazioni commerciali dell’ultimo periodo, servite peraltro a mantenere fresco il nome del musicista nell’establishment dello spettacolo.