All’interno di una corazza costruita con infinita timidezza, si trovano sensibilità, tenerezza e un lampo di tristezza che evapora in un tiepido sorriso. Si presenta così nelle rarissime interviste concesse Sophie Zelmani, delicata songwriter di Stoccolma che fin dal suo esordio artistico, avvenuto nel 1995, ha sempre evitato le strade più semplici per avere successo commerciale. Ha pubblicato poco più di una dozzina di album, sempre praticamente senza promozione e con poca attività live.
Tale ritrosia è rara nello show business e non ha di certo aiutato l’autrice a diventare famosa, anche se otterrà buone vendite in Europa e in America soprattutto tra la fine del millennio e i primi anni del nuovo. Sing and Dance è difatti datato 2002 ed è la sua raccolta di canzoni più riuscita, grazie ad una scrittura matura ancor più di quanto l’età dimostrasse -aveva appena compiuto trent’anni- e un approccio al canto molto personale, che forse può solo lontanamente ricordare Suzanne Vega, ma spicca per originalità. La voce, a volte proprio sussurrata, è una lieve carezza che spinge nel suo mondo, fatto di nostalgia, delusione, tradimenti e ironia, quest’ultima necessaria a sopportare le storture della vita, che affiorano man mano nelle liriche, in cui non mancano riferimenti dedicati a personaggi che l’hanno ingannata. Sì perché la Zelmani è molto diretta, si mette sempre in primo piano e quell’You, copiosamente presente nei brani, la maggior parte delle volte è riferito a se stessa o a chi è stato parte della sua esistenza.
Ha dichiarato di adorare la solitudine e di sentirsi parecchio più vecchia dei suoi coetanei e in ciò ha probabilmente influito la morte tragica per annegamento del padre quando era adolescente. Un papà che aveva “portato” in famiglia una chitarra e per Sophie quello strumento era proprio diventato un fratello con cui passare le giornate e comporre musiche. Poi avviene l’incontro con il produttore Lars Halapi che intuisce le doti della giovane musicista, la prende per mano e accompagna nel percorso artistico, lasciandole sempre libertà compositiva e consigliandola in modo stimolante dal punto di vista degli arrangiamenti. Si nota tutto ciò anche nell’opera di cui stiamo parlando, di matrice alternative folk rock con raffinate sfumature pop, dove da un lato viene privilegiato un approccio cantautorale, con la scelta di sonorità soffuse che ben si adattano alla voce magnetica dell’autrice svedese, e dall’altro si vira su pezzi più ritmati, in cui giocano un ruolo essenziale i fiati, che rimbalzano su un tappeto creato da percussioni, piano e organo.
L’iniziale lunga ballata Oh Dear affianca alla tranquillità della melodia un testo claustrofobico e insieme alla dolcissima How’s Your Heart Doing, che si chiude con l’entrata in scena di un flauto da favola (opera di Per “Texas” Johansson, pure ottimo sassofonista tenore), è fulgido esempio di quanto scritto sopra. La vena introspettiva di Sophie emerge mentre confessa di sentirsi ingabbiata, di non riuscire a vivere pienamente la vita e si domanda come stia il suo cuore.
Le seguenti Going Home e People fanno da contraltare con il loro incedere incalzante da atmosfera quasi festosa. Gli ottoni disegnano un riff davvero accattivante nella prima, gioiello del disco, dove si ammicca a un tradimento non concretizzatosi…
“…Can only sense happiness if the music is sad
So I’m going home
I must hurry home
Where a life goes on
We’re too old to make a mess
Dreams will keep me young…”
“Posso solo percepire la felicità se la musica è triste. Così me ne vado a casa, devo affrettarmi per tornare a casa, dove una vita va avanti. Siamo troppo vecchi per fare un pasticcio, ci penseranno i sogni a tenermi giovane.”
Si può essere felici anche solo sognando, è questo il manifesto dei suoi pensieri, e questo tema si ricalca anche nella seconda canzone, dove si narra di una persona affascinante, ma pericolosa, quindi da evitare.
Leonard Cohen, Bob Dylan, ma soprattutto David Gray, con il capolavoro White Ladder, sono le ispirazioni per liriche e melodie che Halapi decora di chitarre intriganti. Breeze sembra uscire da un album di Chris Rea, musicalmente parlando, con quella pioggia di slide lacrimose, la tenera Moonlight è arricchita da un vibrafono, mentre la soffusa Gone With The Madness è quella che più si avvicina a Suzanne Vega. La chiusura viene lasciata all’enigmatica How It Feels, che sembra scegliere di raccontare in modo inusuale ciò che significhi la maternità, in un’atmosfera Knopfleriana.
“The rumour you’re hearing
is coming straight from me
It’s a rumour to rely on
This is how it feels.”
“Il rumore che stai ascoltando viene direttamente da dentro me, è un rumore a cui affidarsi. Così è come ci si sente”.
Si è lasciata appositamente per ultima Once, anche se sarebbe la traccia numero 5 dell’album, perché rappresenta un capitolo a parte. Infestata dallo spettrale violino di Peter Forss, è un tenebroso duetto con il mitico Freddie Wadling, compianto cantante e attore che nella sua carriera si è misurato dal punk alle ballate rock. Per un attimo ci si trova catapultati nelle Murder Ballads con Cave e la Minogue, questo per attestare la qualità e profondità del brano, che scava nei più cupi meandri dei sentimenti di coppia, dove le incertezze vissute per le decisioni errate già prese si ripercuotono a mo’ di effetto domino su quelle future.
“Sono solita definire il mio scrivere come bisogno necessario che viene dal profondo dell’animo. Quando creo una canzone provo una grande soddisfazione e mi sento meglio dentro.”
Persone, situazioni e sensazioni sono amabilmente catturate e sviscerate dalla Zelmani. Le sue creazioni fanno parte di un processo interiore che le permette di far uscire in musica ciò che per lei nella vita reale è un turbinio di frasi sospese, pensieri non detti. E proprio nelle sue composizioni finalmente si snodano quei gomitoli di sentimenti che la timidezza non le ha mai consentito di sbrogliare. Ascoltare Sing And Dance nella sua interezza regala quarantacinque minuti di tenerezza e preparatevi a sognare, perché, come dice Sophie, i sogni mantengono giovani.