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REVIEWSLE RECENSIONI
08/02/2020
Torres
Silver Tongue
Che “Silver Tongue” possa mettere la parola fine sulla carriera di Torres, non è ovviamente una certezza ma diciamo che siamo nel campo delle forti probabilità.

“Three Futures” l'avevo recensito all'epoca e, rileggendo oggi quel che avevo scritto, devo confessare che ero stato parecchio largo di manica. L’ho rimesso su nelle scorse settimane e niente, non mi ha suscitato nessuna emozione particolare. Per una che arrivava da due lavori splendidi, in particolare “Sprinter”, si trattava di un notevole passo indietro. Peccato, perché era riuscita finalmente ad approdare alla 4AD, l'etichetta dei suoi sogni, quella con cui aveva sognato di pubblicare sin da ragazzina. Ma le vendite non sono andate bene, la Label non è rimasta soddisfatta e ha deciso di interrompere la collaborazione, nonostante fosse stato siglato un contratto per tre dischi. 

Psicologicamente è stato un brutto colpo per Mackenzie Scott, che si è sorpresa addirittura a meditare sulla possibilità di abbandonare la carriera. Riflesso di un'epoca difficile, dove la crisi del supporto fisico ed una transizione a nuove forme di fruizione non ancora del tutto compiuta, rende spesso travagliato il percorso di quegli artisti che non hanno ancora raggiunto uno status pienamente consolidato. 

Superato lo smarrimento, la ragazza di Orlando ha trovato casa alla Merge, un'etichetta che, come lei stessa ha tenuto a sottolineare, è gestita da musicisti ed è veramente appassionata alla musica che pubblica (oddio, che la 4AD possa essere accusata di non esserlo è per me un mistero ma prendiamo atto). 

“Silver Tongue”, suo quarto lavoro in studio, avrebbe dovuto essere il disco della rinascita, quello della riconquistata libertà, dell'approdo ad una nuova dimensione creativa. Al termine dell'ennesimo ascolto, possiamo dire una cosa sola: delusione totale. Ancor più cocente se si pensa a quanto fosse stato elogiato “Sprinter”, a quanto in quei mesi la Scott sembrasse la nuova promessa del rock al femminile, addirittura considerata dai più come l'erede di Pj Harvey. Evidentemente ci eravamo illusi. Evidentemente quello che sembrava un semplice passo falso si è rivelato essere l'inizio di una vera e propria parabola discendente. O forse, detto in maniera più prosaica, non c'è abbastanza talento dietro. Affermazione crudele, ma il dato di fatto è che se dopo due dischi splendidi ne fai due mediocri, forse due riflessioni bisognerebbe farle. 

Siamo ovviamente nell'ambito dei gusti personali, ci sarà senza dubbio gente che giudicherà il disco in maniera totalmente positiva e di sicuro non sarò io ad impedirglielo. Però, dal momento in cui sono io a scrivere queste righe, la mia sentenza non potrà che essere impietosa. 

“Silver Tongue” appare in tutto e per tutto come la prosecuzione del discorso iniziato con “Three Futures”: la ruvidezza degli esordi stemperata a favore di un alleggerimento e di una rarefazione del suono, ottenuta con un maggiore impiego di Synth e orchestrazioni e di un uso meno distorto delle chitarre. Inciso con una formazione a tre, comprendente Erin Manning al Moog e al sintetizzatore, J.R. Bohannon alla chitarra e alla Pedal Steel e Bryan Bisordim alla batteria, si presenta in generale più sintetico e asciutto del predecessore, quasi come se ci fosse dietro la volontà di arrivare alle radici della canzone, sottraendo orpelli inutili e facendo risaltare il più possibile la voce. La definizione che l'autrice ne ha dato, come una sorta di via di mezzo tra il Country e il canto gregoriano, potrebbe servire a rendere l'idea. Si tratta di brani a basso ritmo, dove la voce è sempre in primo piano, le linee melodiche hanno a tratti un effetto salmodiante e dove gli arrangiamenti tendono a svolgere un ruolo avvolgente, quasi protettivo nei confronti di chi canta. Il problema, alla fin fine, è che un po’ ovunque aleggia un’atmosfera di sufficienza, una calma piatta che contrasta con i temi trattati, che tutto sono tranne che innocui. E questo contrasto tra la drammaticità dei testi, tra l'urgenza di vita in essi sottesa e la stanchezza che si respira per tutta la durata di questi 34 minuti, fa pensare che ormai Torres non sia più in grado di utilizzare il songwriting come un'arma letale. 

Per carità, qualche episodio piacevole c’è, come ad esempio il singolo “Dressing America”, che almeno possiede una melodia accattivante, oppure la rockeggiante “Last Forest”, che si riempie pian piano di distorsione. Non male anche la ballata “Gracious Day”, che possiede un certo feeling malinconico; il resto scorre via all’insegna della noia, con la scarsa durata dell'insieme che non è mai stata così benedetta dal sottoscritto. 

Questo “Silver Tongue” durerà poco, temo. Un approccio fiacco e una scrittura priva di mordente, quasi un esercizio di stile, incompatibile col vissuto di una ragazza che, anche per tutto quello che ha passato di recente, dovrebbe avere il fuoco dentro. Suonerà a Torino a marzo ma, per quanto sul palco sia brava, credo che quel giorno andrò a sentire i DIIV... 


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