Era dai tempi dell’acclamato Star Treatment (2016) che il “reverendo” David Eugene Edwards non dava segni di vita. Un periodo di pausa piuttosto lungo, utile a comporre e mettere insieme le canzoni di questo nuovissimo Silver Sash, il cui materiale (nove canzoni per la durata complessiva di soli trentatre minuti) è stato scritto in collaborazione con l’amico di lunga data Chuck French, noto anche come chitarrista della band post-hardcore/emo dei Planes Mistaken For Stars e membro stabile dei Wovenhand dal 2012.
Inutile dire che l’incontro artistico è stato decisamente proficuo e che il connubio fra i due ha prodotto un’opera vibrante, testimonianza di un livello d’ispirazione, che continua a rimanere, miracolosamente, su livelli altissimi. Anche perché, le canzoni in scaletta, sono state concepite e limate con estrema attenzione, visto che il disco ha indossato la sua veste definitiva dopo un lavoro durato la bellezza di quattro anni. Registrato a Denver, nella casa di Edwards, con la collaborazione di Jason Begin, Silver Sash raccoglie canzoni che il musicista americano teneva a languire nel proprio computer da tempo: brani, quindi, risalenti a epoche diverse, alcuni solo abbozzati, altri decisamente più strutturati.
Nessun rischio di trovarsi di fronte a una raccolta male assortita, però: il collante, ciò che rende perfettamente congruo il quadro d’insieme, è la visione di Edwards, il quale non smette di scandagliare la notte e il deserto, alla ricerca dei propri fantasmi interiori. Il risultato è, dunque, un disco nero come la pece, che si muove seguendo coordinate goth folk e post punk, che evocano la notte, i grandi spazi e un misticismo ieratico, il tutto contaminato da qualche breve inserto di elettronica.
Insomma, sono i Wowenhand al loro meglio, come si intuisce immediatamente dall’opener "Temple Timer", un brano oscuro, potente, attraversato da scariche di solenne elettricità, scandita dal salmodiare austero di Edwards. Una scaletta in odore di apocalisse, perfetta colonna sonora dei tempi bui che viviamo, in cui frementi tirate post punk ("Acacia" e "Omaha" sono una vera e propria lectio magistralis sul genere) si alternano a brani accesi di misticismo, esaltati dal timbro presbiteriano della voce emotivamente fluttuante di Edwards ("Duat Hawk"), o a schiumanti galoppate nel deserto, come nello stoner alla QOTSA di "Dead Dead Beat", un assalto all’arma bianca, il cui battito feroce e le chitarre rabbiose strattonano l’ascoltatore nel centro della mischia.
Chi aspettava da tempo un nuovo album dei Wovenhand, con Silver Sash ha visto premiata la propria pazienza. Merito anche di un minutaggio contenuto che esalta, senza dispersioni, la forza evocativa dei nove brani in scaletta, i quali, pur assumendo talvolta connotati truci e violenti, non perdono un briciolo della magia ipnotica che da sempre nutre la scrittura di Edwards. Che, sia alla guida dei Wovenhand come dei leggendari 16 Horsepower, ha influenzato e ispirato, come pochi hanno fatto, il mondo del rock alternativo americano. Una musica non facilmente etichettabile, un magma tenebroso, denso di spiritualità ancestrale e tormenti interiori, in cui convivono, in perfetto equilibrio, folk, old time, post punk e rock’n’roll. Patrimonio dell’oscurità.