Il cinema di Abel Ferrara si è sviluppato negli anni come una sorta di lunga seduta di autoanalisi. Sono molti gli aspetti che si potrebbero prendere in considerazione pensando alle varie tappe dell'ormai lunga carriera del regista newyorkese. Tra questi è fondamentale sottolineare quella sorta di transfert tra il privato tormentato dell'artista e quello dei suoi protagonisti su pellicola.
Nel corso degli anni il focus di questa operazione, volontaria o involontaria che sia, si è gradualmente spostata dalla sofferenza dovuta ai vizi e alle dipendenze di un giovane e dolente Ferrara, sublimate poi nell'opera cinematografica, a una sorta di riflessione più posata e ragionata ma comunque squarciata da ampi sprazzi di inquietudine, come ben dimostrato proprio da questo Siberia, opera ostica che sembra aprire un discorso su coscienza e incubo con un approccio visionario e astratto che conferma ancora una volta quanto il sentire e il riferire di Ferrara non si sia mai pacificato fino in fondo (e forse nemmeno un po').
A portare avanti questa operazione e a dare corpo all'io di Ferrara su schermo torna ancora una volta l'amico e sodale Willem Dafoe, ormai una sorta di doppelgänger di Ferrara stesso e qui alla sesta importante collaborazione con il regista di origini italiane, un'appartenenza e un amore per il nostro Paese, che è l'ennesimo elemento che accomuna il direttore al suo interprete, anche lui (Dafoe) legato all'Italia e ormai in grado di padroneggiarne la lingua con sempre maggiore confidenza. E proprio con la voce over di Dafoe che si auto-doppia in italiano che si apre questo Siberia...
In una landa ghiacciata che sembra esistere ai confini estremi del mondo (in realtà si è girato in Trentino) il solitario Clint (Willem Dafoe) gestisce una locanda che ovviamente è frequentata da pochissime persone le quali vi si recano principalmente per bere. Oltre ai pochi avventori a far compagnia a Clint c'è il gruppo di cani da slitta che gli permette di avere una certa mobilità in quell'ambiente non troppo amichevole.
Tra i clienti compare un nativo del luogo, un inuit forse, poi una donna incinta con sua madre, una donna che nel grembo porta forse il figlio di Clint? Il protagonista si inoltra poi nella neve con i suoi cani, la sua mente comincia a vagare tra incubi e ricordi, l'esperienza sarà tutt'altro che quieta.
La voce fuori campo di Clint ci introduce al film con un piccolo trauma, con un ricordo legato a un'infanzia non semplice, protagonisti proprio i cani da slitta della razza husky che ora, per un Clint adulto, sono la sua unica compagnia costante.
L'approccio di Ferrara allo sviluppo di Siberia è da subito frammentato, segmentato, un montaggio di ricordi, situazioni reali (fotografia irreale) e incubi che formano un flusso di coscienza a scavare nella psiche di un uomo che si è ritirato dal mondo e che, forse per mancanza di coraggio, ora non ne fa più parte.
Nel fondersi di realtà e immaginifico, il protagonista sembra confrontarsi in maniera critica con una seconda versione di sé stesso, una sorta di autocoscienza che mette in discussione l'operato dell'uomo, il suo isolarsi, il suo giustificarsi; l'incubo così prende piede, l'atto del decifrare le immagini diviene più difficile per lo spettatore e per il protagonista, si aprono crepacci e sguardi sanguinolenti, l'angoscia della caduta si sovrappone alla presenza di corpi sfatti. Anche il paesaggio è estremamente mutevole e inafferrabile: dalle lande ghiacciate si passa a un deserto desolato e caldissimo, dagli scenari di guerra alle sortite di pesca in compagnia del padre.
Fondamentali le figure femminili: una madre? una moglie? ancora una madre, forse quella del suo futuro figlio? Per questa sorta di scavo nell'(in)conscio Ferrara sembra optare per l'isolamento anche nella scelta delle location, il cittadino che ha amato Roma e ancor prima New York si sposta nel nulla, a distanze significative dalla maggior parte degli altri esseri umani e si affronta, si esamina, quel che ne viene fuori è un caos la cui interpretazione rifugge la semplicità.
È probabile (ma in fondo chi può dirlo?) che a seguito di un percorso di riscoperta Abel Ferrara abbia trovato in sé stesso ancora delle cose da rimettere in ordine, o magari da lasciare in disordine ma con consapevolezza, l'effetto può essere stato catartico per l'autore, più ostico di certo per lo spettatore che, a parere di chi scrive, per apprezzare davvero questo Siberia deve già partire da un amore pregresso per Ferrara, la visione occasionale è sconsigliata, diciamo che sarebbe meglio iniziare il viaggio da un altrove radicato decisamente nel passato e che sta proprio dalle parti della New York nella quale Ferrara mosse i primi passi.
Detto questo Siberia gode di fascino e libertà anti narrativa, nel suo continuo sviscerarsi e donarsi il regista compie un altro passo e regala un nuovo tassello, uno di quelli difficili da piazzare al posto giusto se non si hanno in mano già altri pezzi del puzzle.