“La macchina si fa sempre più sofisticata ma alla fine è sempre con la natura (intesa come divenire) che ci si scontra e ogni volta si ristabilisce un nuovo equilibrio” (A. Camilletti)
Un segno inciso su qualcosa che non è facilmente distruttibile, cancellabile, qualcosa che nel tempo dobbiamo polverizzare o cambiare di stato per liberarcene. Che bel messaggio questo. Esiste qualcosa, un segno, un messaggio, una testimonianza capace di restare nel tempo? Oggi? Esiste? Non ci credo. Non più almeno. Infatti ne sono a digiuno. Come sono a digiuno di cose che restano, in generale…
Il tempo è liquido, omologante e omologato, costrittivo dentro etichette che vietano lo spazio vuoto ed il suo silenzio denso che mettono in crisi l’uomo e il suo pensiero, l’uomo e il suo modo di stare al mondo. Dentro questo vuoto la penna e la visione di un artista come Psycho Kinder si dimostra ancora capace di una forza contemplativa e di una codifica risolutiva tale da impedire qualsiasi altro movimento verso…
Noi altri, perlopiù presenze private di una forma mentis capace di accogliere concentrazione e pensiero critico, nel mare magnum di superficiale consapevolezza, siamo interrotti nella catena di montaggio da anime alte come quella che è stata capace di riconfermarsi con un lavoro come “Epigrafe” - sul quale arrivo tardi per mia colpa e solo per mio stupido indottrinamento al dovere macroscopico. Sono 8 le matrici visionarie, sono 9 le collaborazioni a cui affida la conduzione del suono, la scelta e la saturazione delle forme. Cercatele, fate almeno questo piccolo sforzo. Sono frecce quasi invisibili questi frammenti lirici, più diradati del solito temo: Psycho Kinder sputa veleno dal dolcissimo contorno poetico, profondo, allegorico, capace di sottolineare la nostra resa all’intelletto, alla fantasia, alla personalità primitiva.
“Giornate fotocopia attraversano presenze rilevate da un cartellino” (Tape 3 - P. Kinder)
Sono 8 nuove scritture su piattaforme soniche, sono viaggi, inevitabili, indefiniti, pezzi di vetro e chiodi di ferro arrugginito. Sono 7 brevi liriche di cui l’ultima viene ripresa da “La persuasione e la retorica” del filosofo friulano Carlo Michelstaedter. E se l’inizio è una vertigine circolare che marca a fuoco questo bisogno di tornare su cose appena definite - descrizione dell’omologante anche nel suono, geniale soluzione didascalica a mio avviso, secondo la mia lettura s’intenda - alla chiusa trovo lobotomizzante la struttura sonora che si profila in un’unica insistente direzione, come chiodo di ferro appunto, come cesello artigiano su pietra antica, cesello che insiste, che si intestardisce, che non cede alla stanchezza. Ha il pregio di stancare quest’ultima traccia del disco e lo fa perché resti nel tempo questa epigrafe sonora. La parola qui esce dai margini del suono, chiude l’ascolto in pieno silenzio… nuda, in una verità che - sempre a mio modo di leggere - ricuce quel cerchio iniziale che del messaggio era portatore sano.
“Epigrafe” è il nuovo lavoro di Psycho Kinder. Non sono canzoni. Non sono musiche. Non sono poesie. Non è spoken-words come piace definirlo a chi usa la didattica. Non è niente di tutto questo. Ogni lavoro di Psycho Kinder è un’esperienza da fare con se stessi. Basta trovare il coraggio di spegnere il cellulare e tutte le comodità sociali che, a forza di riempire i nostri spazi e i nostri silenzi, ci hanno reso povere presenze rilevate da un cartellino.
Ascolto on Bandcamp
https://psychokinder.bandcamp.com/album/epigrafe-2
Dinamiche. Questo disco è ricco di infiniti ricorsi contro margini ben precisi, di estensioni portate a dimensioni perenni contro punti terminali, finiti e impacchettati. Da una parte gli infiniti punti di una circonferenza… dall’altra uomini che terminano dentro protocolli. Cosa c’è tra questi due estremi?
Non sono due estremi. Ci sono continui accadimenti, infinite possibilità… La crescente disumanizzazione (di cui si parla da decenni) sembra aver subito un’impennata negli ultimi tempi.
La prima cosa che mi viene in mente da chiederti, forse banalmente: perché i brani sono titolati con tape? Tape 1, Tape 2… e così via… non hanno nome queste canzoni… anonime nell’identità, come gli “uomini dentro i protocolli”… perché?
Trattandosi di un’opera corale in cui le singole parti compongono un’unica “Epigrafe”, ho preferito non dare titoli ben definiti ai brani, evidenziandone soltanto gli autori.
Tape 1: partiamo proprio da questa sensazione di circolarità infinita. Infinite ripartenze… e qui il suono diviene spaziale, gioca con le angolazioni ma comunque tutto è parte di un moto ricorsivo, unico, di deriva. Mi hai fatto pensare alla velocità di deriva degli elettroni… alla corrente elettrica. Non è così? Sento che il suono qui stia arricchendo la lirica. Nel senso che la vita possiamo vederla e viverla da diverse angolazioni…
Mi piace l’immagine della corrente elettrica che hai evocato. A Moreno Padoan, compositore del brano, ho chiesto un’apertura del disco potente, una tempesta glitch. Il testo, sussurrato e in sottofondo, può essere interpretato come l’immagine di una verità inscalfibile, di una testimonianza che resiste.
Tape 2: adesso invece mi porti dentro catalogazioni, protocolli. Il tendere ultimo è destinato a questo. Come e perché un uomo, entità che considero infinita, si trova chiusa dentro protocolli? Di tutto il disco ho trovato qui il momento di maggiore denuncia sociale…
Credo che un percorso lunghissimo, complesso e inevitabile ci abbia condotti a questo punto. Ma ricollegandomi al testo precedente, sento di ribadire che ogni traguardo in realtà è solo l’inizio di una ripartenza. Nella storia, diversi paesi e popoli hanno dovuto fare i conti con momenti di alienazione da cui sembrava impossibile uscire. La “macchina” si fa sempre più sofisticata ma alla fine è sempre con la natura (intesa come divenire) che ci si scontra e ogni volta si ristabilisce un nuovo equilibrio.
Tape 3: continua il tema della catalogazione, della denuncia verso una mancanza di personalità nella vita quotidiana. L’immagine di un cartellino mi rimanda agli anni ’80, ai lavori statali, in azienda, in fabbrica… l’emblema del posto fisso e degli scompartimenti sociali. Non è così?
Sì. Il cartellino ora non è più fisico ma continua ad esistere.
Tape 4: qui ho forte l’immagine del dolore, quello personale, quello che si consuma sulla nostra pelle. Scendere nelle interiora del mondo - che per me significa anche scendere dentro se stessi - per poi vivere questa elevazione dolorosa fino all’implorazione… Che sia questa la ricetta di creazione della poetica e del suono di Psycho Kinder?
Hai colto bene il senso della prima strofa. Nella chiusura (“un amore vasto / senza dono”), invece, si esplicita il rammarico di un potenziale inespresso.
Tape 5: in qualche modo si percepisce il viaggio nel tempo, dentro il tempo, con il tempo. La memoria diviene presagio del futuro. L’accostamento con l’immagine di una galleria è talmente forte che non riesco a trovarne di simili…
Ti ringrazio. Penso che anche il videoclip di Francesco Pirro, autore delle musiche come Celery Price, sia stato molto funzionale al “viaggio”, contribuendo ad esaltarne i versi.
Tape 6: trovo che queste liriche siano decisamente più aderenti alla realtà quotidiana. Forse uno dei momenti in cui ti sei rivolto a noi ad una distanza ravvicinata. Ciò che oggi viviamo nelle rovine, non pensi possano essere anche e soprattutto testimonianza della gloria che fu e che oggi non è? Dunque ennesima denuncia al “nulla” di fatto di questo tempo nostro? Culturalmente parlando almeno...
Il testo della “Tape 6” vuole mettere in guardia dalla glorificazione del passato a prescindere, dal vedere sempre come mitico quello che è stato. Un atteggiamento molto diffuso e poco costruttivo per affrontare i problemi della nostra epoca che, al pari delle altre che l’hanno preceduta, non può essere fatta solo di ombre ma anche di luci e possibilità. Questi versi sono inoltre un medium per esorcizzare la nostalgia che mi attanaglia, per riportarmi al qui e ora.
Tape 7: uno strumentale di cui non abbiamo alcun appiglio e coordinata. Dentro tutto questo disco ho sentito forte quel senso di dispersione, di sospensione, di droga suburbana. Qui non è da meno… però ho bisogno di coordinate…
L’intero disco è caratterizzato da liriche brevissime che gradualmente si fanno più rarefatte, salvo riapparire nella chiusura finale in cui declamo un iconico frammento di Carlo Michelstaedter, tratto da “La persuasione e la rettorica”.
Il silenzio in questo pezzo è voluto, è una sorta di sospensione della parola, di preparazione al gran finale ieratico/noise di Maurizio Bianchi.
Tape 8: forse il momento più disturbante di tutto il disco, dissonante, divergente. Mi hai rimandato a “Lobotomia” degli Area, lo sai? Qui mille domande che non ho tempo di farti. Scelgo di chiederti: perché questa direzione così “violenta”?
L’ultima tape è una sorta di apocalisse sonora, una tabula rasa che apre a una rinascita e quindi a un nuovo ascolto dell’album. Ho cercato di dare un senso di circolarità al lavoro anche grazie ai versi selezionati.
Epigrafe sappiamo cosa significa. In altri termini rende nobile e inevitabile il gesto di incidere un disco. Ti chiedo invece, pensando al peso sociale che ha questo tuo lavoro (io ne ho sentito tanto, credimi): quanto avremmo bisogno di epigrafi oggi, in questo mondo etichettato ovunque, omologato e privo di sostanza ma invaso da una liquidità quasi onnivora?
Non ne ho idea, io cerco soltanto di dosare al massimo le parole e di non contribuire all’avvelenamento sociale che si è creato. Avverto sempre di più la necessità di sottrarmi a un certo tipo di dibattito pubblico, estremamente polarizzato.
Stiamo assistendo a una strumentalizzazione brutale del linguaggio, a processi sommari in nome del politically correct che mi fanno inorridire.