Chissà se quella “teoria dell’attaccamento” con cui ha scelto di battezzare la sua band, incorporandola nel monicker e rendendola al tempo stesso titolo del nuovo disco, è stata evocata per evidenziare il bisogno di un legame, di qualunque sorta, enfatizzare il senso di dipendenza per superare un periodo di crisi.
Ha raccontato Sharon Van Etten che alla lunga, scrivere canzoni era divenuto faticoso, e questo nonostante l’ultimo We’ve Been Going About This All Wrong (qui la recensione) avesse rappresentato una delle vette indiscusse della sua discografia. Non è la prima volta che si sente un artista dichiarare quanto possa essere doloroso il processo creativo, ma è abbastanza inusuale la modalità con cui la cantautrice del New Jersey è uscita da questo impasse.
Si trovava in sala prove con la sua band storica, quella che da qualche anno la accompagna in tour, e ha chiesto ai musicisti di jammare insieme. Le cose hanno funzionato al punto tale che se ne sono usciti con due canzoni, diventate poi rapidamente un disco intero.
Dietro agli Attachment Theory ci sono dunque sempre loro: Jorge Babi alla batteria, Devra Hoff al basso e Teeny Lieberson alle tastiere e alle seconde voci. La novità, semmai, è che questi dieci nuovi brani sono il frutto di un lavoro collettivo, da cui la decisione di inventarsi un nome da affiancare a quello della titolare del progetto.
La responsabilità condivisa ha senza dubbio giovato a Van Etten, che appare qui serena e rilassata, a suo agio con la voce e al servizio di composizioni che si muovono con una naturalezza che a tratti mancava nei pur splendidi predecessori.
Si è parlato, in più di una recensione, di svolta Dark Wave, per dare conto di una scrittura che abbonda di sintetizzatori e presenta colori più scuri rispetto al passato; a mio parere si tratta di una definizione un po’ azzardata: semmai è possibile dire che il trattamento di Marta Salogni (che un po’ di competenze le ha, in merito di band che fanno ampio uso di elettronica) che ha registrato i quattro al The Church di Londra, lo studio un tempo di proprietà degli Eurythmics, potrebbe aver portato in primo piano, nelle soluzioni adottate, il lato più prettamente Synth Pop di questi brani.
Le canzoni si muovono in effetti su coordinate per certi versi simili a quelli della band di Annie Lennox, in un profluvio di sonorità anni Ottanta a metà tra Chromatics (“Trouble”, “Somethin’ Ain’t Right”) ed il Bruce Springsteen anabolizzato di Born in the USA (“Idiot Box” ne è un esempio lampante ma anche nel precedente lavoro il Boss faceva capolino qua e là).
Al di là del giochino delle influenze e dei riferimenti, questo rimane un gradevolissimo disco Pop, tenuto su da una sezione ritmica ora avvolgente (vedi l’opener “Live Forever”, un mantra che si sviluppa un crescendo di grande intensità) ora ricca di groove (“I Can’t Imagine (Why You Feel This Way)” è decisamente ballabile) nonché dotato di melodie irresistibili (il ritornello del primo singolo “Afterlife” è da hit clamorosa).
Poi c’è un brano come “Indio”, incentrato sulla chitarra, veloce nel ritmo e particolarmente ruvido nell’impostazione, tanto da apparire a tratti fuori contesto (di suo funziona comunque molto bene), mentre le ultime due tracce, “Fading Beauty” e “I Want You Here”, rallentano fino all’eccesso, diminuendo le pulsazioni, giocando la carta dell’atmosfera e allungando il più possibile il brodo, cosa che le rende alquanto soporifere, unici punti deboli all’interno della scaletta.
Nel complesso si tratta di un bel disco, magari non all’altezza del precedente ma senza dubbio ricco di bei momenti; il possibile inizio di una nuova fase nella carriera di Sharon Van Etten.