Per quanto strano possa sembrare, gli Shame da Milano non erano mai passati e lo ricordano anche loro durante il concerto, non senza un certo compiacimento per la partecipazione esagitata del pubblico fino a quel momento. Il tour di Songs of Praise aveva fatto tappa a Bologna, poi la pandemia con il conseguente stop ai concerti, proprio nel momento in cui Drunk Tank Pink, fresco di pubblicazione, pareva avere tutte le carte in regola per proiettarli verso una dimensione analoga a quella degli Idles, se non maggiore.
Hanno recuperato qualche data l’estate successiva, dopo la cancellazione del concerto di Ferrara li abbiamo visti al TOdays Festival di Torino, in un’esibizione di cui ho già scritto in sede di recensione e che i presenti di sicuro non si scorderanno più.
Food for Worms, il loro terzo full length, ha messo in luce ulteriori sfaccettature del sound, oltre ad un chiaro miglioramento del songwriting: pare ormai chiaro che non siano in possesso del talento di colleghi come Fontaines DC, Murder Capital e Dry Cleaning, ma senza dubbio possono giocarsela tutta per rimanere ai piani alti.
Il Circolo Magnolia questa sera è sold out ed è un dato significativo a supporto di quel che ho appena detto: la band di South London può vantare un pubblico fedele e appassionato, anche se, come ormai tipico dei concerti delle band straniere, i giovanissimi sono praticamente assenti.
Ad aprire c’è il duo Hip Hop They Hate Change, scelta inusuale fino ad un certo punto, che certifica una certa vicinanza tra le due scene, quella Rap e quella del nuovo Post Punk, visibile soprattutto a livello di attitudine.
Vonne Parks e Andre Gainey vengono dalla Florida e hanno appena pubblicato Finally New, che a memoria mi pare essere il loro quinto disco.
Il loro è un Hip Hop piuttosto Old school, dove non mancano però inserti elettronici che spesso sconfinano nella Dance Music. Ideale per scaldarsi in attesa degli headliner, anche se per il resto la loro performance conferma tutti i limiti di questo genere in sede live, a meno che non si sia in possesso di consistenti mezzi di produzione. I due MC fanno il loro molto bene e sul palco sono decisamente simpatici e accattivanti. Manca un dj, le basi se le mandano loro o forse qualcuno al mixer, sta di fatto che la resa sonora è abbastanza pessima, i bassi quasi sempre saturi, mentre i vari strati non riescono ad emergere appieno, schiacciati come sono dal Beat.
Decisamente meglio in studio, ma in fondo la penso così di tutto l’Hip Hop quindi forse è un problema mio.
Gli Shame si presentano sulle note di “Fingers of Steel”, prima traccia del nuovo disco, ed è un inizio un po’ ingannevole: il brano è più “ragionato” rispetto alle loro solite composizioni, c’è un ritmo meno incalzante e diverse aperture melodiche dettate dalle chitarre. È un biglietto da visita un po’ atipico e difatti le cose cambiano nel giro di pochi minuti, già con le successive “Alibis” e “Alphabet”: il batterista Charlie Forbes si denuda (la stessa cosa farà poco più avanti il frontman Charlie Steen, che aveva fatto il suo ingresso on stage indossando una camicia militare), il bassista Josh Finerty salta come un pazzo da una parte all’altra del palco come suo solito, e la devastazione può avere inizio.
Dal vivo gli Shame sono una forza della natura. Se gli Idles, il termine di paragone che viene in mente nell’immediato, sono brutali ma anche anthemici e divertenti, con un live set anche fortemente radicato in una dimensione etica e politica, Steen e compagni sono selvaggi e radicali, senza compromessi. Suonano tutto al doppio della velocità e anche laddove, soprattutto nei brani nuovi, appaiono brevi inserti melodici, vengono presto fagocitati dalla furia delle ritmiche e delle chitarre. Unica eccezione, l’ottima ballata “Adderall”, eseguita rispettandone i tratti fondamentali, malinconica e vagamente scura, la dimostrazione che quando vogliono sanno uscire dalla comfort zone con risultati decisamente pregevoli.
A livello generale però il set è un unico implacabile assalto sonoro, coi rari momenti di quiete (vedi una rara “The Lick” con le sue strofe in spoken word, oppure le tenui e inquietanti geometrie chitarristiche di “6/1”, la più elaborata “The Fall of Paul”) che di tanto in tanto squarciano la violenza ma che non riescono nell’impresa di arginare il terremoto. Terremoto che peraltro il pubblico gradisce eccome: pogo selvaggio in tutta la prima metà del locale, stage diving a valanga, con Charlie Steen che si diverte a far partire un moshpit dopo l’altro, lui stesso protagonista di un paio di passeggiate sulle braccia dei fan, oltre che di una scalata di un traliccio del palco, per poi sedersi comodamente in cima a contemplare divertito l’agitarsi della folla sotto di lui.
La prova dei cinque è nel complesso positiva: seppure a tratti un po’ confusi (l’alternanza degli sfoghi in stile Punk Hardcore con i momenti più rallentati non viene sempre gestita al meglio, come se ancora non fossero a loro agio nel muoversi tra le composizioni più elaborate, motivo per cui un brano come “Different Person” non lo stanno suonando mai), riescono sempre a coniugare potenza e precisione, aiutati anche da una resa sonora che fa risaltare ogni componente; efficaci anche su cori e seconde voci, un aspetto del loro repertorio a cui nell’ultimo disco è stato offerto uno spazio maggiore. Aiuta anche avere un frontman come Charlie Steen, che non avrà il carisma di un John Talbot, ma che è comunque in grado di incendiare la folla con poche mosse.
Nel finale, oltre ad un’anthemica “One Rizla”, tuttora uno dei brani migliori del loro repertorio, arriva l’inattesa “All the People”, che è il pezzo che chiude Food for Worms e che, con le sue chitarre aperte e il ritornello liberante e di stampo corale, rappresenta uno dei loro maggiori scostamenti stilistici. La eseguono bene, con la giusta dose di potenza ma facendo risaltare bene la melodia. Se in futuro metteranno più pezzi così, i loro live saranno meno esplosivi ma forse ne guadagneranno in qualità.
Siamo alla fine ma ovviamente non possono chiudere con “Angie”, a questo punto sarebbe un epilogo troppo moscio; meglio dunque l’implacabile mid tempo di “Gold Hole”, con il suo riff marziale e la sua ritmica schiacciasassi, un ritornello urlato da tutti a squarciagola a far capire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che i pezzi del primo album sono ancora i più apprezzati in sede live.
Si va a casa così, dopo un’ora e venti senza cali di tensione, senza alcun bisogno della scenetta rituale dei bis.
Dal vivo sono uno dei gruppi migliori attualmente sulla piazza. In studio, al netto dell’apprezzamento che ho sempre tributato ai loro dischi, i mezzi non sono altrettanto buoni e c’è ancora tanto da migliorare. Nel frattempo sappiamo già che li rivedremo a luglio, stavolta per due date, e che chi se li è persi adesso farebbe bene ad esserci.