Il Boccia era un tipo cosmico, ma non nel senso che era appassionato di astronomia, no, i suoi trip erano altri. Andava in estasi davanti ad una insalatiera piena di pasta al burro oppure mentre addentava una baguette preparata dalle sapienti mani di Alfredo, del bar davanti alla scuola, dove andavamo a fare ricreazione, un mega-panino con dentro di tutto: würstel, insalata russa e salsa verde. I trip del Boccia sfidavano la sorte, non si accontentava di sfondarsi di canne, ma correvano voci che si fumasse anche i bacchetti di incenso. Il Boccia lo conoscete già, era il nostro riferimento per la musica, andava di prog e di jazz. Cosmico.
Quindi Sun Ra in primis, Don Cherry, Pharoah Sanders e tutto quanto odorava di psichedelico.
L’istinto vorrebbe che oggi il Boccia se ne stia spaparanzato su di una amaca, con un trombino tra le dita ad ascoltarsi il nuovo disco di Chip Wickham, “Shamal Wind”, perso dentro le note del flautista e sassofonista britannico.
In piazza dal 1990, Chip Wickham ha pubblicato solo due album da solista, questo è il secondo, registrato a Madrid nel 2017 e uscito da poco per l’etichetta spagnola Lovemonk, avendo preferito scrivere e collaborare nonché esibirsi dal vivo con artisti del calibro di Roy Ayers, i Lack of Afro, The New Mastersounds più altri che se vi va vi andrete a cercare (lo sapete che odio le liste della spesa, ok?).
Così come il Boccia, tra un ascolto di Yuseef Latif e Art Blakey, prese coscienza di sé e di classe (tutte scuse per bigiare a scuola) anche il nostro Chip è stato ispirato da quelle leggende, cosa che si evince appunto già dal primo brano in scaletta, title track dell’album, tutta piena di cosmicità e percussioni arabeggianti, che evocano deserti e calure asfissianti.
La successiva “Snake Eyes” è jazz modale, quelle note martellate sul piano sono McCoy Tyner allo stato puro e il flauto di Wickham è memore della lezione di Coltrane. Libertà espressiva e rispetto per la storia del jazz.
La musica latin che così bene aveva impressionato nel precedente lavoro di Wickham, “La Sombra”, ritorna prepotente in “Soho Strut”, brano funkeggiante in salsa fusion, dove appunto le percussioni e il piano rimandano a suggestioni latine, così come l’incalzante “Barrio 71”, pezzone in stile afro dove le vigorose note al piano di Phil Wilkinson gareggiano con il sax baritono di Wickham ed il vibrafono di Ton Risco, un brano che farebbe la gioia di tutti i dj non asserviti alle mode.
Con “The Mirage” torniamo alle atmosfere sognanti tanto care al Boccia (riuscite ad immaginare un ragazzone di 120 chilogrammi vestito con una tunica a la Demis Roussos e con stampata in faccia un’espressione di quieta rassegnazione? Beh, io l’ho visto per davvero), brano questo dove flauto, vibrafono e tromba lavorano in perfetto equilibrio per donarci un viaggio da fare con la mente, anche senza uso di sostanze così care al nostro amico di cui sopra. Bello l’intervento alla tromba di Matthew Halsall, così “milesdavisiana” che a tratti, in particolare nel finale, mi ha ricordato le atmosfere che si respiravano in “Ascenseur pour l’Echaffaude”.
Gran finale con “Rebel No. 23”, brano già edito nel 2017, retro del singolo “The Beatnick”, un uptempo dove il flauto di Wickham viene contrappuntato dal Wurlitzer di Gabri Casanova.
Da rimarcare che tutti i brani dell’album portano la firma di Wickham, che è suonato e prodotto come meglio non si potrebbe, che è stato registrato su tape analogici e che il jazz, quando non va nelle accademie, ha ancora molto da dire - e, cosa non secondaria, è tutto meno che noioso.
Sono certo che, tra un tiro di trombino e una zaffata di incenso, anche il Boccia apprezzerebbe.