Difficile scrivere una recensione a proposito di un’artista praticamente sconosciuta. In rete, infatti, di Shawn Williams, quasi non ci sono notizie. E anche il suo sito, probabilmente ancora in costruzione, e la sua pagina Facebook, non illuminano granché sul suo passato e la sua formazione. Il tutto, peraltro, sembra quasi voluto, come se attorno al personaggio si volesse creare un alone di mistero. Così, gli unici dati certi sono che la Williams arriva da New Orleans (Lousiana), che le sue fonti di ispirazione spaziano da Neko Case e Elvis Presley e che Shadow è il suo album d’esordio. Troppo poco, dunque, per poter creare quel necessario contesto storico, culturale e geografico che solitamente costituisce la parte introduttiva di una recensione. C’è però un disco, Shadow, che farà innamorare tutti gli appassionati di americana al femminile, tutti coloro, cioè, che custodiscono gelosamente nella propria discografia i dischi di Lucinda (la Williams più famosa), Chelle Rose, Elisabeth Cook, Sunny Sweeney e altre cowgirls di cui ci siamo occupati in passato. Un esordio coi fiocchi, dunque, e un full lenght che per soluzioni compositive e gusto della melodia non poteva passare inosservato e meritava, quindi, di trovare spazio in questa pagina. La title track apre la scaletta ed è un tuffo al cuore: siamo di fronte a un esempio perfettamente riuscito di come si possano plasmare concetti noti attraverso un songwriting che spinge l’ascoltatore nel buio della notte più nera. La canzone è cupa, il mood quasi ossianico, e l’ombra che si aggira fra le note è quella di David Eugene Edwards e dei suoi Wovenhand. La successiva Shake Shake Shake è un ruvidissimo rock pregno di umori sudisti e qui il richiamo all’altra Williams (Lucinda) è abbastanza esplicito. Come A Little Closer si muove, invece, con originalità sui passi di una ritmica quasi funk anche se il retrogusto è ancora quello di un’estetica tenebrosa. Le chitarre ruggiscono di nuovo nel blues basico di You Got Some Growin’ Up To Do, ultimo episodio elettrico di una scaletta che predilige il registro della ballata. I’ll Think Of You, con lap steel e violino in bella evidenza, One More Drink (anche questa attraversata da toni cupissimi) e What If I Stayed, si muovono in territori tradizionalmente country, mostrando però un’inaspettata originalità negli arrangiamenti (in What If I Stayed si può ascoltare un brillante dialogo fra violino e chitarra elettrica) e melodie che restano impresse in pochi ascolti. Chiudono l'album tre brani che ribadiscono un piglio compositivo di altissimo livello: il country blues di Stella, scosso dai fremiti elettrici di una slide con licenza di uccidere, gli accordi in minore della delicata e malinconica Gone Again (che trova il suo punto di forza in un delizioso arrangiamento di pianoforte e nei riverberi finali della sei corde) e le atmosfere dilatate della conclusiva On The Ground, tristissimo lamento che evoca la solitudine di una gelida notte nel deserto. Shadow è, dunque, un disco che mantiene le premesse racchiuse nel titolo: le ombre e i fantasmi popolano le dieci canzoni in scaletta, che solo a tratti conoscono la luce del sole, mentre il mood prevalente è un denso coagulo di umori foschi e tenebrosi, la cui definizione non può essere che quella di “gotico americano”.