“È nostro dovere, credo, combattere quotidianamente per quello in cui crediamo, soprattutto per chi fa il mio mestiere, perché un artista che ha trovato l’equilibrio perfetto probabilmente non avrà più nulla di interessante da dire”. (D. Sellari)
Penso, nella mia piccola umiltà di provincia, che questo sia uno degli ascolti che più mi abbiano fatto riflettere sulla ricchezza che si nasconde dentro le parole, su quanto queste diventino portatrici sane non solo di messaggi ma anche di valori e di forza fisica… davvero di forza fisica come quella delle pietre e delle tempeste. E sono cosciente d’aver scoperto un’ovvietà… ma sono altrettanto convinto che solo a viverle lo si capisce per davvero, un po’ come quando si parla del pensiero assurdo degli innamorati. In fondo, chiacchierando chiacchierando, siamo tutti pronti a salvare il mondo. E dunque… la quotidiana resa alle maschere - che significa anche un reiterato allineamento alla norma - diviene il seme di una ignoranza, di una incapacità alla comprensione prima e alla reazione poi. Ed è così che l’ascolto di questo nuovo disco di OLDEN dal titolo “Prima che sia tardi” diviene viaggio mio personale (prima ancora che di Zahira) e capisco lungo la via, tra le tante cose, anche quale peso abbiano nella mia vita parole come rabbia e verità. La rabbia per la violenza perpetrata sulla faccia pulita della verità.
Tutto questo dentro il planare comodo delle belle melodie che Olden torna a disegnare con Flavio Ferri… e non sempre è indispensabile pavoneggiare robotica e trasgressione tecnica, non servono mille ritrovati del design digitale per essere riconosciuti come cantautori di questo futuro. Tutt’altro direi.
Encomiabile il suono che, in equilibrio instabile, celebra con semplicità (altra parola in disuso) l’incontro tra i computer e le soluzioni del bellissimo pop d’autore italiano che, in fondo in fondo, ha reso celebre la canzone italiana da generazioni a questa parte… e faremmo bene a non scordarlo mai. E non sono poche le derive bohémien che ho incontrato…
Ultimamente ho riascoltato spesso questo disco pensando alla mia quotidiana condizione. Ho dato forme concrete, facce e timbri precisi alle voci per ciascuna delle allegorie che sono nascoste dentro queste 10 nuove scritture di Olden (che poi sono 11 nella versione digitale dove troviamo anche una bonus track con la feat. di Umberto Maria Giardini).
Ultimamente sento il bisogno di riascoltare questo lavoro, sento il bisogno di dar forma alla mia “Oca Nera”, ho necessità di lasciarmi dimostrare quanto in fondo il male istituito sia pur sempre una maschera che alla polvere fa ritorno e con una facilità disarmante che nessuno potrebbe immaginarlo… forse è più la paura della sua voce che la fiducia della nostra verità. Ho bisogno di figurarmelo lì a due passi dalle mie scarpe quel “Clown” che piange, solo e sconfitto… meravigliosa figura dentro una canzone davvero alta… il suo pianto che in qualche modo dimostra l’umana condizione di finitezza e - appunto - di fragilità che ha questo male istituito, dall’uomo per l’uomo.
Insomma, un disco come questo nuovo lavoro di Olden è un libro di tante parole importanti, solo pochissime usate per estetiche soluzioni ed è quindi un ascolto che apre porte e cuce significati, che dipana sensi e forme diverse, che scuote le coscienze con romantica forma da cantautore e ci risveglia dall’equilibrio omologante che impera su ognuno di noi, burattini in fila di questo circo mediatico dell’apparire. E al Circo, lo sappiamo, sfilano i Clown e le oche nere, al circo la normalità indossa una maschera e va benissimo così… sediamoci in fila con gli altri e attenti a pagare il biglietto prima di entrare per non venir presi dalle guardie in divisa.
Finalmente torna ad aver peso spirituale, pubblico e sociale la penna di un cantautore, almeno questo vale per me, s’intenda… e per me, che ci crediate o no, è festa grande e sempre lo sarà di fronte a opere simili, annoiato come sono dalle imperanti quanto sfacciate sfilate estetiche prive anche solo di un banalissimo motivo d’esistenza. E piantiamola di giustificare tutto con la bellezza…
Un grazie pubblico a David Bonato e a Vrec che mi regalano sempre la possibilità di intercettare ascolti preziosi…
Paura: adoro fermare delle parole durante l’ascolto di un disco. Ed il tuo disco è pieno di parole importanti… quanta paura c’è dietro queste canzoni?
Le parole in questo disco sono sicuramente la parte più importante, la base sulla quale è stato costruito poi tutto il resto.
Per quanto riguarda la tua osservazione, forse la parola giusta è “preoccupazione”, che è una forma di paura consapevole, meno irrazionale.
Preferisco credere che la storia di questo disco sia attraversata da un desiderio di riscatto e di libertà più che di paura per quello che succede (o che sta per succedere).
E restando su questa sfaccettatura della paura: qual è quella che vive Zahira, la protagonista? Oppure è attraverso Zahira che esorcizzi la tua di paura?
Mi piace pensare che la paura iniziale di Zahira poi si trasformi in qualcos’altro e che diventi reazione, lotta, desiderio puro di libertà. E se andiamo effettivamente ad analizzare il personaggio, vediamo che la Zahira spaventata durante il comizio del “Giorno della Gloria” riesce poi a reagire, a scappare via e (forse) a ritornare, dopo un lungo esilio.
Scendiamo più nel dettaglio. Chi è Zahira? Chi rappresenta esattamente… ma soprattutto, che sia per davvero (come piace credere a me) la parte sensibile di ognuno di noi? Che sia simbolo di futuro e di legame con la vita stessa in divenire?
Zahira è il simbolo della resistenza all’odio, al razzismo e al populismo, è “figlia di Inesistenti”, figlia di stranieri. Una ragazza che sceglie la fuga come via di libertà, che viene rinchiusa in un Quartiere di Lavoro e che riesce ad attraversare il mare per cercare un posto migliore, dove tutti gli uomini e tutte le donne sono uguali, senza distinzioni di razza, cultura, religione. Speriamo possa essere il simbolo di un futuro migliore, lo spero davvero.
In questo viaggio di Zahira quanta attualità hai raccontato? Anche qui sei rimasto (forse volutamente) metaforico senza schierarti in una dimensione precisa. È corretto? E se sì… perché?
Il racconto attraversa Paesi e frontiere, non ha un’ubicazione precisa, non vuole essere una descrizione puntuale di una sola realtà ma più che altro vuole descrivere alcune tendenze di pensiero, nostalgiche “ideologie di ritorno” che purtroppo ultimamente stiamo vivendo sulla nostra pelle, certamente anche in Italia, ma non solo. La scelta della narrazione di una storia inventata mi ha permesso di essere più libero, di poter dire quello che avevo in mente, senza condizionamenti, senza particolarismi. Ho voluto scrivere una storia che potesse essere considerata “universale”.
L’equilibrio di due forti chiavi di lettura di questo disco mi arriva precario e sensibile ad ogni oscillazione. Credo che “Mare tranquillo” sia davvero un brano che divida, che spartisca acque ed impressioni. Il cammino per Olden è diretto ad una sicura tranquillità o è soltanto una guerra quotidiana per difendere la speranza, per combattere la distruzione dell’uomo contro l’uomo?
Con “Mare Tranquillo” in un certo senso inizia la seconda parte del disco, è proprio una sorta di “spartiacque” che porta l’ascoltatore in un contesto differente, quello della reazione, della lotta, della riconquista della libertà.
La sicura tranquillità probabilmente non la conoscerà mai, e credo che sia un bene, in fondo.
È nostro dovere credo combattere quotidianamente per quello in cui crediamo, soprattutto per chi fa il mio mestiere, perché un artista che ha trovato l’equilibrio perfetto probabilmente non avrà più nulla di interessante da dire.
Altro personaggio importante che tra l’altro è protagonista di uno dei brani più alti (sempre secondo me) di questo lavoro. “Il Clown”. Figura che trovo di un simbolismo davvero gigante. Partiamo dalla sua maschera svelata a colpi di sangue: chi è per te il clown in questa vita, in questo viaggio?
Il clown è il “mostro nero che muore”, lo stesso uomo tronfio e sprezzante che gridava le sue parole di odio e violenza, che poi si ritrova da solo, sconfitto, con la sua maschera tragica addosso. È l’espressione della sconfitta della propaganda populista e razzista, è una bugia vivente che finalmente viene smascherata e che senza la forza della sue menzogne è solo un pagliaccio che non fa ridere nessuno e che esce di scena miseramente, pateticamente.
E come vedi torniamo sempre a quella famosa combinazione di due chiavi di lettura che mi hai dato: vestito di nero, piange… io lo vedo benissimo questo clown… ma è pur sempre un clown. Secondo te dov’è la verità? Nel pianto o nella maschera?
La verità è sempre nella maschera, perché sotto non c’è niente. Ed il pianto è solo viltà, è la paura di morire, è l’ultimo sussulto dell’istinto di sopravvivenza.
E a proposito di personaggi è impossibile non citare l’Oca nera. Figura che torna anche altrove nel disco… soffia il vento e la rivoluzione, acqua buona e l’oca nera che muore. Che lei sia il male dell’uomo?
L’Oca Nera è il Male, la rappresentazione di una “forza nera” becera e violenta, è un mostro cattivo che si muove con goffaggine, che crede siano tutti suoi nemici, che non crede nell’uguaglianza ma solo nella discriminazione e la distruzione delle differenze.
E parlando proprio di questo brano, “L’oca nera”: forse il momento più sghembo di tutto il disco, con questa danza ubriaca un po’ alla Capossela, un po’ francese, un po’ partigiana… perché hai scelto di legare a questa figura questa faccia musicale?
La musica di questo pezzo è arrivata da sola, il testo volutamente surreale e simbolico mi ha portato verso atmosfere che potremmo definire “grottesche” e che aiutano ad esasperare questa figura così tetra e spaventosa ma anche un po’ ridicola. È una sorta di ballo da bettola o forse una ninna nanna che spaventa i bambini.
Restando sul tema dell’estetica. Di nuovo Flavio Ferri al prezioso contributo stilistico del tuo suono. Rinnovare questo connubio cosa significa per te? Cosa cercavi o, anzi, cosa volevi ritrovare?
Flavio è stato ed è essenziale per la parte musicale dei miei pezzi, rappresenta un arricchimento costante, fatto di confronti, punti di vista che non sempre (almeno inizialmente) coincidono, ma che alla fine poi si incontrano e creano qualcosa che ha un senso, una sua coerenza.
Non mi sono neanche posto il problema di continuare a collaborare con lui o meno, perché ormai stiamo viaggiando insieme, ci piace quello che facciamo insieme e ci crediamo molto. Per cui, avanti così!
Chiudo promesso. Altra parola preziosa. Verità: ecco una bella parola che mi arriva forte soprattutto quando nei brani cerchi le melodie in maggiore. Alla fine del viaggio di Zahira, alla fine del nostro viaggio quotidiano, al di là di tutte le maschere che un uomo indossa ogni giorno… cos’è che resta per Olden? Qual è la verità? Quando ascolto questo disco penso che alla fine mi voglia lasciare, tra tanti, un messaggio di verità… forse Zahira e la sua vita cercano di farci capire che dovremmo tornare alle cose davvero importanti… preoccuparci di tornare a sapere cos’è la notte senza luna… cosa ne pensi?
Io credo che la verità sia quella che un artista dovrebbe sempre raccontare, o forse dovrei almeno provare la “sua” verità, per quanto sia difficile; questo è quello che cerco di fare sempre, soprattutto ultimamente. Per quanto riguarda questo disco e questo “viaggio”, il messaggio più forte che resta è che niente è più vero di un sentimento di libertà, forte, genuino e consapevole. Senz’altro, in particolar modo adesso, credo che la lezione che abbiamo imparato è proprio quello che tu dici, che dovremmo tornare ad occuparci delle cose importanti, vitali essenziali.
La nostra è una società che ha pensato troppo all’apparenza e molto meno alla sostanza, e questa crisi sanitaria (ma pure sociale ed economica) ci obbligherà a cambiare prospettiva, ci spingerà forse ad essere più “umani”, più solidali, con qualche aperitivo di meno e qualche abbraccio di più.