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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
12/10/2017
The Cure
Seventeen Seconds
La vita non è che un immenso palcoscenico sul quale recitiamo la parte che ci viene assegnata, tutto è finzione, tutto è assurdo, tutto è una ridicola messinscena. Il nuovo esistenzialismo “dark” nasce qui.

Tra l’estate e l’autunno del 1979, Michael Dempsey, ostile alla direzione che il leader voleva dare alla musica del gruppo, se ne va e viene rimpiazzato da Simon Gallup, che si tira dietro anche un tastierista, tale Mathieu Hartley. Robert Smith cade nella prima (e più lunga) delle sue ormai proverbiali “fasi depressive”, il cui mood si rifletterà sulla musica malinconica, funerea e a tratti violenta dei tre album successivi, vale a dire la vera e propria trilogia dei Cure “classici”. Sparisce il pop orecchiabile, sparisce il “rock”, spariscono i retaggi (pochissimi, invero) punk e spariscono pure quei già tenui tratti di “ballabilità” con cui i Cure avevano giocato nell’esordio (e che riusciranno a incorporare disinvoltamente e in via definitiva nella loro musica già a partire dalla fine del 1982 con la mini-svolta synth-pop inaugurata dal singolo “Let’s Go To Bed”).

Seventeen Seconds, secondo album di Smith e soci (e, per il sottoscritto, il loro capolavoro), è un’opera sublime e romantica che fra  languori, tormenti e agrodolci inquietudini, mappa le ustioni del male di vivere. La chitarra s’increspa a fior di pelle ricamando liquidi accordi che sfiorano i nervi: mai distorta, mai aggressiva, mai invadente, si innesta discreta ma decisa nello spazio apparentemente infinito cesellato dagli altri strumenti, contribuendo a creare quella sensazione di vuoto claustrofobico che sarà il loro marchio di fabbrica. Domina lo spleen esistenziale, ma appena sussurrato: il suono è ancora scarno, lineare e minimal, possiede una qualità ineffabile dalla quale Three Imaginary Boys era esente. Il basso profondo di Gallup detta cupe cadenze che solo un non-batterista come Lol Tolhurst avrebbe potuto seguire in modo così perfetto: i tempi sono per lo più lenti, metronomici eppure aritmici, ossessivi eppure suadenti.

Fin dall’apertura quasi (quasi?) ambient di “A Reflection”, intrisa di desolata rassegnazione, l’album spiazza la critica e soprattutto il pubblico, che ancora aveva nelle orecchie la rosea esuberanza dell’esordio. Fioccano accuse di pretenziosità, complice anche una copertina intellettualisticamente seriosa e del tutto scevra dell’autoironia che caratterizzava quella dell’album precedente: un’immagine sfocata con pochissimi colori (bianco e grigio, prevalentemente). E tuttavia essa rappresenta pienamente l’affresco lirico e sonoro ivi contenuto: lievi pennellate d’acquarello sulla vuota tela dell’esistere.

“Play For Today” è forse – come e più di “A Forest”, unico singolo estratto dall’album – la traccia che meglio ne riassume forma e sostanza. L’incipit non fa prigionieri: “It’s not a case of doing what’s right / It’s just the way I feel that matters / Tell me I’m wrong / I don’t really care”. La vita non è che un immenso palcoscenico sul quale recitiamo la parte che ci viene assegnata, tutto è finzione, tutto è assurdo, tutto è una ridicola messinscena. Il nuovo esistenzialismo “dark” nasce qui. “Secrets”, lieve e algida folata di brezza autunnale in cui la voce – quasi un sussurro – viene sdoppiata in due tracce fuori sincrono e pare provenire da lontani abissi di solitudine, precede “In Your House”, ipnotico virgulto dark che invita alla quiete come uno straniante sedativo del dolore. Qui è Gallup a farla da padrone, pescando dal cilindro un giro di basso letale che s’intreccia alla perfezione con gli ottenebranti arpeggi della chitarra di Smith; a chiudere la prima facciata, “Three”, un “finto” strumentale (pregasi ascoltare con estrema attenzione) che si dà arie da elettronica impegnata.

A metà del cammino, l’impressione è che i Cure, nell’arco dei dodici mesi intercorsi fra l’album di debutto e questo secondo capitolo, siano un altro gruppo, o meglio, un gruppo “altro”. Ci si sente invasi con (in)discrezione nel corpo e nell’anima, e si fatica a comprendere cosa c’entri tutto questo con il concetto di pop; si aggiunga che la seconda facciata si apre con un altro strumentale ambient di 53 secondi (bruscamente interrotto: il nastro magnetico era terminato…) e non sarà difficile capire l’acidula ferocia con cui parte della critica fece a pezzi il disco. E poi c’è “A Forest”, che da sola basterebbe a consegnare i Cure all’immortalità. Inquieta, ermetica, sovraccarica di pacata tensione claustrofobica, pare implodere da un momento all’altro e invece sfocia in quel memorabile, angosciante “again and again and again…” finale, che se negli intenti doveva essere grido liberatorio, nel concreto si fa urlo disperato che apre il varco degli inferi, trascinandovi Smith e compagnia bella. Qui, sull’orlo dell’abisso, i Cure danzeranno pericolosamente per i due anni successivi.

“Suddenly I stop / But I know it’s too late / I’m lost in a forest / All alone // The girl was never there / It’s always the same / I’m running towards nothing / again and again and again…”.

La ragazza che il narratore ha seguito all’interno della foresta non è che il suo doppelgänger, concetto fondamentale della poetica di Robert Smith, senza il quale non è possibile comprendere i Cure. Il brano si conclude con il basso che spezza in brevi pause la fluidità di un’armonia già stuprata da una chitarra in fuga dal centro tonale, lasciandoci un senso di perpetuo smarrimento e desolazione.

Quasi a voler dar tregua all’ascoltatore, a metà del secondo lato Smith decide di inserire una dolcissima ballata: “M”, con la sua linea melodica quasi infantile, si configura come la prima canzone d’amore dei Cure e non è da escludere che durante la registrazione aleggiasse in studio lo spirito di Nick Drake. Ma è giusto un momento. “At Night” arriva come un schiaffo e riporta il tutto su atmosfere cariche d’inquietanti presagi, e prefigura le brume sulfuree del successivo Faith (1981). Un basso distorto e una chitarra compressa suonano reiteratamente e all’unisono due-note-due, due rintocchi sinistri che sembrano non avere mai fine, forieri di angoscia, paure e fantasmagorie ipnagogiche. La batteria, sepolcrale, non dà requie, siamo in piena trance e il ritmo (ritmo?) potrebbe perpetuarsi all’infinito o durare dieci secondi e non farebbe differenza (“it’s always the same…”).

Seventeen Seconds si chiude col brano eponimo, straordinario bocciolo di elegante minimalismo e garbata disperazione, il cui testo traduco qui, chiosa perfetta di un disco perfetto:

 

il tempo scivola via

e la luce inizia ad affievolirsi

e tutto è quieto ora

il sentimento è svanito

e l’immagine scompare

e tutto è freddo ora

 

il sogno doveva finire

il desiderio non si è mai avverato

e la ragazza

comincia a cantare

 

diciassette secondi

una misura di vita

diciassette secondi