Trentacinque anni di storia sulle spalle e non sentirli. Iconici e fedeli al proprio credo, i Winger pubblicano il loro settimo album, il primo da Better Days Comin’ del 2014, e sembra non sia passato un solo giorno dal lontano esordio del 1988. Registrato a Nashville da tutti i membri originali (Kip Winger, Reb Beach, Rod Morgenstein e Paul Taylor) oltre al chitarrista John Roth, che fu aggiunto alla line up nel 1992, Seven è la dimostrazione che quando ci sono passione e talento, si può invecchiare alla grande e continuare a sfornare splendidi dischi.
Se è vero che molti artisti e band che avevano dominato la scena hard rock degli anni ’80 e ’90, hanno appeso le chitarre al chiodo o si sono lentamente spenti, risucchiati da un gorgo di mediocrità, la band newyorkese, pur centellinando gli album, è andata progressivamente migliorando, acquisendo struttura e corpo come un buon vino rosso. Finiti spesso nel dimenticatoio, mai presi realmente sul serio, ignorati da Mtv e sbertucciati da tanti detrattori, i Winger, a dispetto di tutto, hanno continuato a regalare ai propri fan autentiche chicche, riuscendo a fondere mirabilmente grandi melodie, riff muscolari e un sorprendente appeal radiofonico, senza tuttavia soccombere a cliché o formule stantie o derivative. Seven, inutile girarci intorno, è un grande disco, e se l’hard rock melodico è il genere che fa per voi, troverete in questa lussureggiante scaletta tanto pane per i vostri denti.
Il riffage che forgia l’album è semplicemente monumentale, i contagiosi ritornelli si mandano a memoria immediatamente, l’eredità anni ’80 è lucidata da un approccio moderno, e la band, complice anche la coesione più che trentennale, plasma un suono sincronizzato, gagliardo e potente, corroborato vieppiù da una tecnica sopraffina.
Non c’è una sola virgola fuori posto in tutto il disco, e non è solo merito dell’equilibrata produzione dello stesso Kip Winger. Qui, soprattutto, ci sono grandi canzoni. Certo, talvolta, il mestiere aiuta, e lo si capisce, ad esempio, nell’ottimo incipit di "Proud Desperado", brano innodico, come molti altri, guidato da un superbo lavoro alle chitarre e dalla voce incredibilmente espressiva del leader, che a dispetto dei sessantadue anni, possiede un’ugola che dimostra parecchi lustri in meno.
Tuttavia, a prevalere sono una classe infinita e idee melodiche da autentici fuoriclasse (la spettacolare "Heaven’s Falling"), il desiderio di mostrare i muscoli e il ghigno cattivo (la funkeggiante "Voodo Fire"), la voglia di addentrarsi in territori oscuri (l’epica "It All Comes Back Around") o di sfrecciare rapidissimi ed esiziali attraverso gli anni ’80 ("Stick The Kinife In And Twist").
Come contrappunto, però, di tanti momenti sferraglianti, quel che emerge maggiormente dai solchi del disco, è lo strapotere melodico della band. Che non sbaglia un ritornello, certo, ma che è anche in grado di sfornare autentiche gemme come "Broken Glass", un brano malinconico e ipnotico, prezioso vademecum di cinque minuti e mezzo su come scrivere la perfetta ballata rock.
Passeranno altri dieci anni prima di vedere un nuovo lavoro dei Winger? Chi lo sa. Nel frattempo, il consiglio è quello di godere di questo gioiellino di hard rock melodico e, magari, per chi non li avesse, recuperare i precedenti lavori della band. Ne vale davvero la pena.