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Settanta revisited
Carlo Crescitelli
2017  (Il Terebinto Edizioni)
LIBRI E ALTRE STORIE
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24/07/2018
Carlo Crescitelli
Settanta revisited
Che nessuno si offenda per quanto la scrittura di Crescitelli mette assai alla prova la sensibilità e l’autocontrollo. Davvero, che nessuno si offenda. Piuttosto ecco l’ennesima prova di gusto e di contenuto che ci invita sfacciatamente, almeno per una volta, a smetterla di giustificarci sempre tutto con frasi di comodo ben confezionate per il pubblico pagante.

Vi preannuncio che la lettura di questo libro è consigliata solo ad un pubblico dotato di intelligenza. Perché come sempre accade con le provocazioni (di stile e di forma prima che di contenuto, vista l’era dell’apparire in cui siamo), il popolo in massa viene chiamato ad uno sforzo dinamico di intelletto nell’inseguire tra le nuove sfumature il senso ed il contenuto. Insomma come a dire: sforzatevi con intelligenza di capire il vero significato che c’è dietro la rabbia e la rivalsa di Carlo Crescitelli quando ci racconta il ricordo che ha degli anni ’70 italiani scrivendone una memoria in questo breviario (mi si passi il termine stiloso) intitolato “Settanta Revisited. Guida sballata e verbosa per l’anziano rincattivito di questi anni millennovecentoduemili” edito da Il Terebinto Edizioni.

C’è un’opera che corre parallela a questo progetto, di pari contenuti ma di modalità ben più sociali, politiche e filosofiche. Si intitola “Il ritorno del dinosauro” di Piero Dorfles. Il consiglio è quello di immergersi in questo mare senza alcuna restrizione di spirito e senza aver paura di sentirsi giudicati. Anzi. Mettiamoci una mano sulla coscienza e iniziamo da pagina 1.

Il tema è quello di rivisitare i pro e i contro di quei famosi anni ’70 in cui in Italia viveva un popolo che scendeva in piazza ad incontrarsi e condividere invece che restare chiuso dietro lo schermo di un social network, creava ARTE e non prodotti sterili per il mercato mediatico, viveva di esperienze di vita e non di simulazioni digitali come si fa oggi persino con i suoni da far suonare ai computer. I dischi si compravano, non erano gratis tutti e subito e questo significava ricerca, sacrificio, ascolto… cultura. E siamo proprio certi che dietro lo sviluppo tecnologico ci sia un progresso che ha restituito (almeno in questo ambito del discorso sia chiaro) un vero beneficio culturale e sociale al popolo? Un vero SVILUPPO? Io mi accodo a Carlo Crescitelli come a tantissimi che hanno sviluppato il tema e scopro con stupore e tanto piacere che ci si trova tutti su una linea comune: questa lettura, con un piglio di rabbia, sfacciatamente popolare e con una forma assai poco romanzata (quindi occhio a voi perbenismi del cliché) non rimpiange il passato, che certamente si sognava certe belle frontiere di vita, non osanna il futuro, che certo non ci lascia immaginare dove ci porti… ma descrive un presente in cui, tra mille possibilità e ricchezze, siamo assai poveri dentro, di musica, di arte, di cultura… di curiosità. Siamo poveri di coscienza.

Che nessuno si offenda per quanto la scrittura di Crescitelli mette assai alla prova la sensibilità e l’autocontrollo. Davvero, che nessuno si offenda. Piuttosto ecco l’ennesima prova di gusto e di contenuto che ci invita sfacciatamente, almeno per una volta, a smetterla di giustificarci sempre tutto con frasi di comodo ben confezionate per il pubblico pagante. Cerchiamo per una volta di fare il mea culpa e forse, almeno per oggi, non avremmo sprecato del tempo dietro questa immondizia mediatica che ci sta rendendo delle vere e proprie pecore lobotomizzate impacchettate, tutte uguali per il sistema commerciale globale. E scusate anche il mio linguaggio scritto ma ho sposato a pieno la linea dopo la lettura di questo libro. Non offendiamoci gente, perché siamo in migliaia a sentire un concerto di musica plastifica ricca di contenuti BANALI giustificandoci che è cosa bella, fresca e leggera quando invece i veri artisti sono relegati nel fondo dell’indifferenza. Il gusto è educazione e l’educazione è cultura. E la cultura, a furia di social, la stiamo dimenticando nel cassetto delle mutande e dei calzini. E ora che è estate si gira anche nudi…

 

Io partirei proprio con un noto adagio che non fa mai male, anzi: trovo che sia terribilmente attuale. Si stava meglio quando si stava peggio?

Mah, forse sì, forse no. O per meglio dire: magari non per tutti. Io personalmente del mondo di alcuni decenni fa ricordo il mio sentirmici molto a mio agio perché in qualche modo riuscivo a padroneggiarne tecnologia e relazioni, mentre adesso non più; ma in realtà non è stato per tutti così, c’è chi si è evoluto e aggiornato bene, e di conseguenza dunque oggi la pensa esattamente all’opposto di me.

 

Gli anni di piombo per molte città italiane. Anni di fuoco. Ma soprattutto anni di coscienza sociale. Ecco una parola che vorrei sottolineare: coscienza sociale. Ma io che i settanta non li ho vissuti trovo però che di coscienza sociale non se ne veda neanche l’ombra… sbaglio?

E no che non sbagli, hai proprio ragione. L’unica nota qualitativa che c’era allora, e oggi manca, è il forte senso della responsabilità che si usava attribuire alla politica da parte della società civile, al tempo assai vivo nella pubblica opinione, e purtroppo terminato per sempre poco dopo, con il successivo avvento di craxismo e berlusconismo. Quanto a tutto il resto, era puro e violento conflitto di parte: non troppo differente da oggi, dunque, ovviamente soltanto in certi intenti, e per fortuna non in quei tristi e deprecabilissimi metodi.

 

Se nel ’77 quindi si lanciavano pietre ai carri armati oggi che si fa per protestare? Si scrivono frasi stupide sui social… e poi? Esiste cioè ancora quella forza, quel capitale umano, quel credo?

Cose stupide se ne scrivevano tante anche allora, sui muri o nei ciclostili invece che sui social, ma la sostanza non cambia. Quello che cambia invece, dall’ieri all’oggi, è quella sensazione potente di poter essere in qualche modo anche noi attori del nostro futuro, che all’epoca condividevamo un po’ tutti, mentre oggi invece nessuno riesce più neppure ad immaginarlo.

 

Musica ovviamente. Prima non c’era omologazione industriale. Prima c’era espressione. Oggi?

Molte delle deficienze espressive della musica di oggi passano a mio avviso più per i riduttivi orizzonti della tecnologia strumentale, che non per l’aspetto compositivo e creativo vero e proprio. I grandi e primitivi sintetizzatori del tempo ti lasciavano – ed anzi ti imponevano – possibilità di modulazioni timbriche sempre uniche e nuove, mentre con i vari odierni devices tutto quel complesso lavoro di creazione e governo del suono si riduce alla scelta fra le relativamente poche, precostituite e preordinate opzioni di serie. È una delle truffe che la trasmigrazione dall’analogico al digitale ci ha regalato: dotarci di panorami sonori sin troppo definiti, in partenza e in dettaglio. E lo sai allora quale può essere un bell’escamotage da adottare? Tornare a sonorità acustiche che non condizionino troppo l’ispirazione. Tu che cosa ne pensi? 

 

A dover rispondere a queste domanda Carlo mi ci vorrebbero ore e pagine intere di magazine. Sono molto d’accordo con quanto dice dei format ordinati a priori. Come i gelati confezionati o quelli artigianali in un certo senso. Dal mio piccolo punto di vista, visto che non ho vissuto i ’70 e quindi non posso averne una voce autorevole in merito, direi che però sono solo scuse che usiamo per comodità. Con la tecnologia invasiva ed esaustiva che abbiamo ogni giorno a disposizione e spesso anche gratuitamente nell’immediato, nessuno ci viene di andare oltre. Nessuno ci vieta di ricercare, di inventare, di modulare, di modificare. Nessuno ci vieta ad esempio di ricercare informazioni nuove o diverse. Eppure ci adagiamo. Quel che vedo io, con molta paura, è che manca completamente l’interesse, lo stimolo, il bisogno di inventare. Questo mi fa paura…

Ma torniamo alle mie domande. Mi incuriosisce molto la scelta estetica del come ha deciso di raccontarci il suo sguardo sugli anni ’70. Un linguaggio assai popolare, diretto, pieno di ira e bisogno di rivalsa. Come mai questa decisione?

Beh, anzitutto diamoci del tu, a noi relitti dei Settanta piace, ci fa sentire meno esclusi dalla contemporaneità… dopo di che vengo subito alla risposta a questa tua assai interessante domanda. Il libro in realtà dà voce a tre anime: quella ingenua e sognante del ragazzino che ero, quella più impersonale dei libri di storia, ed infine quella disincantata e cinica dell’uomo maturo che sono. Sta al lettore comporle, scomporle e decodificarle a suo gusto e secondo sua personale sensibilità.

 

Che poi restando sul tema: perché tutta questa rabbia?

Questa domanda me la fate spesso, e ogni volta torna a sorprendermi un po’, perché in effetti penso che di rabbia nel libro forse avrebbe potuto essercene addirittura di più. Come dicevamo prima, l’approccio rabbioso rientra sicuramente nel gioco delle parti che vi propongo, nel momento in cui specificamente attiene al ruolo dell’anziano re-incattivito che prende parola mostrando il peggio di sé, e talora purtroppo di tutti noi. Ma il tono rabbioso mi serviva anche e soprattutto ad evidenziare icasticamente tutto lo spessore, ormai perduto per sempre, di tanti nostri preziosi e ricchi patrimoni culturali, oggi ahimè spazzati via dagli atroci  guasti indotti dalla calamità del politically correct, vero cancro ideologico degli ultimi anni: e questo non si può più dire, e quell’altro non si può più fare… ma la rabbia e i conflitti si sedano invece andando a lavorare sulle loro cause con l’obiettivo di canalizzare soluzioni, non certo censurando la loro naturale espressione né tantomeno negandone funambolicamente i presupposti. Ciò premesso, mai come oggi io, al di là di queste mie considerazioni di carattere del tutto generale, resto un personaggio conciliante, pacato e appagato dalla vita: e lo sa bene chi mi conosce e frequenta. 

 

Per chiudere: questo libro è servito per ricordare il passato o per denunciare il futuro?

Io direi forse per nessuna delle due: magari, per indagare il presente può essere una risposta giusta. Proprio come hai saggiamente fatto tu che, attraverso la tua diretta chiave di lettura e le tue efficaci domande, hai approcciato e sollecitato temi per nulla nostalgici e per nulla programmatici. Adottando così la maniera migliore di avvicinarsi al mio personale e per certi versi intimo universo di “Settanta Revisited”, e te ne sono davvero molto grato!