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REVIEWSLE RECENSIONI
28/09/2021
Iron Maiden
Senjutsu
Lungi dall’accontentarsi del loro status di leggende dell’heavy metal, con “Senjutsu” gli Iron Maiden realizzano un compendio di canzoni ambiziose ed eleganti, dove lo storytelling è affidato equamente alla voce di Bruce Dickinson e ai riff dei tre chitarristi.

Da circa vent’anni, ogni volta che gli Iron Maiden pubblicano un nuovo album, il canovaccio è sempre lo stesso: il disco viene travolto da una cascata di recensioni a dir poco entusiaste, mentre il valore di quelli precedenti viene minimizzato in maniera francamente imbarazzante. Per cui ecco che Brave New World diventa quello con le quattro outtake di Virtual XI, Dance of Death quello troppo eclettico e con la copertina brutta (su quest’ultima cosa, niente da dire), A Matter of Life and Death e The Final Frontier quelli lunghi e noiosi, e The Book of Souls quello più convincente del lotto ma con qualche filler in meno sarebbe stato meglio. Cosa si dirà di Senjutsu tra qualche anno?

 

Difficile pronunciarsi, ma fin da ora si può affermare che Steve Harris & Co. non ne vogliono sapere di vivere di rendita. Altre band, al loro posto, giunte al diciassettesimo lavoro in studio, si sarebbero godute lo status di leggenda dell’heavy metal e avrebbero pubblicato un album onesto-ma-niente-di-più, per poi monetizzare con un ciclo infinito di concerti negli stati di tutto il mondo. Invece per i Maiden non funziona così, dal momento che per la band ogni nuovo album è un’importante scommessa artistica a cui va dato il maggior risalto possibile. Lo hanno dimostrato quando hanno suonato A Matter of Life and Death per intero, sacrificando classici come “The Number of the Beast” e “The Trooper”, e lo hanno ribadito pubblicando in stretta successione due album doppi dal minutaggio considerevole come The Book of Souls e questo Senjutsu, dopo che con The Final Frontier avevano superato la fatidica soglia dei 74 minuti. Dopotutto, dal momento che i sei inglesi non sono degli sprovveduti, per i nostalgici ci sono i tour antologici come il più recente Legacy of the Beast.

 

A conti fatti, il nuovo corso degli Iron Maiden non è iniziato nel 2000 con Brave New World, che ha segnato il ritorno a casa di Bruce Dickisnon e Adrian Smith, ma cinque anni prima, con The X Factor. È li che Steve Harris – da sempre amante di band come Jethro Tull, Yes e Genesis – ha definitivamente reso esplicite le radici progressive della band, iniziando a scrivere brani sempre più lunghi e atmosferici, inaugurando così una striscia di album dove le canzoni complesse e ambiziose hanno via via sostituito le galoppate del passato. Tanto che in Senjutsu, a ben vedere, se si escludono l’agile “Stratego” e la ficcante “Days of Future Past”, il resto dei brani sono dei midtempo con un minutaggio assai importante, dove la teatralità e lo storytelling – grazie a un Dickinson sugli scudi – la fanno da padroni, e dove la band sa ritagliarsi degli spazi di manovra all’interno dei quali esprimere tutta la sua brillante musicalità. È il caso dell’orientaleggiante “The Parchment”, con le chitarre di Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers ad alternarsi in veste solista nel lungo break centrale, oppure di “The Writing on the Wall”, con Smith impegnato in un assolo che è uno dei momenti musicali più belli del disco.

 

Da questo punto di vista, l’album presenta alcune cose davvero interessanti e per certi versi inedite per i Maiden, come i tamburi marziali che aprono la title track, oppure il riff tra il folk inglese e il country americano di “The Writing on the Wall”. E se la power ballad è già stata sdoganata in passato, molto probabilmente “Darkest Hour”, ispirata alla figura di Winston Churchill e al film L’ora più buia, è una delle più riuscite. Ma se c’è un elemento che mai prima d’ora era apparso in un disco della Vergine di Ferro è quello della malinconia, del rimpianto, del senso di sconfitta che attanaglia il guerriero che vede la sua vita scorrere via al termine della battaglia: sentimenti che emergono prepotentemente in una sezione molto intensa di “Lost in a Lost World” (davvero difficile rimanere impassibili quando Dickinson scandisce i versi finali «As the clouds all drift away now | Until we meet again») oppure nella conclusiva “Hell on Earth”, con Harris che fa accomiatare l’ascoltatore regalandogli una sorta di massima filosofica sulla quale basare la propria esistenza («Lost in anger | life in danger»).

 

Ovviamente in Senjutsu non tutto funziona alla perfezione e molti dei difetti del disco sono ormai di natura endemica in casa Maiden. Come la produzione di Kevin Shirley (alla sesta collaborazione consecutiva con Harris & Co.), che continua a essere confusa e incapace di valorizzare il lavoro svolto dalle tre chitarre. Oppure alcune soluzioni in fase di arrangiamento, che ogni tanto rasentano il cliché, come “Time Machine”, che nella terza parte pesca un po’ alla rinfusa dalla libreria dei riff  del recente passato, tra “Dance of Death” e “The Book of Souls” (e un po’ pure “Hallowed Be Thy Name”, a dirla tutta), ma anche “Death of the Celts”, che nonostante le grandi ambizioni alla fine non è altro che un aggiornamento di “The Clansman”.

 

Ma questi sono peccati veniali, compiuti in buona fede da una band che a ogni nuovo album aspira a spingersi sempre un po’ più in là. A conti fatti, la formazione a sei degli Iron Maiden è attiva da quasi ventidue anni, la metà abbondante della propria carriera discografica. È vero, i successi degli anni Ottanta sembrano inavvicinabili, ma, numeri alla mano, pare che la Vergine di Ferro non sia mai stata famosa come in questo momento e non abbia mai lavorato in così grande armonia. Per cui, alla luce di un lavoro convincente e vitale come Senjutsu, viene spontaneo chiederselo: non è che sia proprio questo il suo periodo migliore?