Francesco Motta si è lasciato alle spalle la fine dei vent’anni e ha intrapreso il percorso della maturità con lucida consapevolezza. Dopo un secondo disco bene accolto da pubblico e critica, la partecipazione a Sanremo, un album dal vivo probabilmente prematuro ma che ne ha comunque fissato indelebilmente le capacità di performer e addirittura la pubblicazione di un libro (che in Italia soprattutto è la classica cosa che fanno i personaggi mainstream, visto che i libri degli scrittori “veri” non li legge più nessuno) l’arrivo del terzo album appare ormai parte di una rassicurante routine, piuttosto che quella prova così ardua che da più parti si descrive (a proposito, è il secondo o il terzo, il disco più difficile per un artista? Credo ci siano diverse teorie in proposito).
Il titolo e la copertina rappresentano in qualche modo una dichiarazione d’intenti: c’è solo la parola “Semplice” ad occupare lo spazio, caratteri neri su sfondo grigio, il cognome dell’artista più o meno a metà sulla destra, scritto in piccolo. È la prima volta che il suo volto non appare in bella vista e la ragione sarebbe stata chiara anche se non l’avesse dichiarata lui stesso: con questo lavoro, lo scopo è stato andare al fondo delle canzoni, spogliarle degli inutili orpelli affinché svelassero la loro vera essenza. L’artista è colui che le ha create ma è anche un io che sa fare un passo indietro e mettersi in secondo piano, se serve per far emergere di più le sue creature.
Niente di nuovo sul fronte della scrittura e forse questo è ciò che balza agli occhi immediatamente: lo stile di Motta è ben consolidato, il suo timbro e il modo di cantare sono quelli e sebbene a questo giro osi qualcosina in più sul fronte degli arrangiamenti e su quello delle linee vocali (leggi, va a prendere alcune note anche al di fuori del proprio range), alla fin fine le canzoni sono sempre quelle, cosa che può essere un bene (ha da sempre un’impronta personale e ben riconoscibile) o un male (scrive sempre le stesse cose e ha una voce fastidiosamente monocorde).
Per il resto, la formula della semplicità, che lui dice di aver imparato dalla lettura delle “Lezioni americane” di Calvino, viene declinata alleggerendo quasi del tutto la sezione ritmica (nel primo singolo “E poi finisco per amarti” c’è comunque qualche reminiscenza del primo disco) e puntando moltissimo sulle ballate, questa volta con una presenza maggiore delle orchestrazioni (emblematica in questo senso è l’iniziale “A te”, insolitamente romantica e con una bella apertura melodica sul ritornello).
Alla produzione viene confermato Taketo Gohara, già presente in “Vivere o morire” e rispetto a quel disco il suono si è fatto ancora più leggero e rarefatto, con gli archi arrangiati da oCarmine Iuvone spesso in evidenza e le percussioni di Mauro Refosco e il basso di Bobby Wooten più impegnati a definire i dettagli che a impostare l’impronta delle canzoni.
Va da sé che il modello più utilizzato è quello della ballata pseudo Folk, un tentativo di ripescare alle radici una certa stagione cantautorale, probabilmente non voluto, anche se poi si finisce per forza di cose da quelle parti lì. Non è un caso che per “Qualcosa di normale” abbia goduto della consulenza di Francesco De Gregori, il quale gli avrebbe consigliato di cantarla con una donna. Da qui l’efficace duetto con la sorella Alice, per un brano che è uno dei più importanti per comprendere la direzione del disco, anche dal punto di vista lirico: terminata la stagione dei grandi interrogativi e delle giustificazioni, più o meno richieste, adesso è il momento di godersi il proprio lavoro e la propria vita, di portare avanti le proprie scelte e di ammettere che, molto banalmente, “va tutto bene”.
“Via della luce” è un perfetto esempio di questa tipica canzone “pacificata” ma anche la title track (che pure gioca un po’ di più con elettronica e sezione ritmica, soprattutto nel finale), “Le regole del gioco” e “Dall’altra parte del tempo” si muovono su questa falsariga.
Stupisce invece “Quello che non so di te”, uno strano incedere New Wave a metà tra Cure e Joy Division, leggermente fuori posto rispetto al mood generale ma ottimo pezzo, tra i più riusciti in scaletta; così come anche “L’estate d’autunno”, che recupera in parte le atmosfere drammatiche degli esordi, bel tiro e ritornello azzeccatissimo. “Quando guardiamo una rosa” termina il tutto andando a pescare nel linguaggio delle romanze, infarcendo poi il finale con tessiture elettroniche e Ambient che in parte riprende in modo quasi speculare l’intro di “Ed è quasi come essere felice”, che apriva il precedente lavoro.
Se la serenità nel quotidiano può costituire la prova di una carriera ormai consolidata, allora “Semplice” rappresenta per Motta la prova della maturità. Lontano dall’impatto deflagrante del debutto, con la sua cruda spontaneità, questo lavoro è frutto della penna esperta di un artista che ha capito che posto occupa e che cosa intende costruire. Piaccia o meno, l’impressione è che rimarrà sulla breccia molto a lungo.