Da Joseph Goebbels a Bettino Craxi, il passo è forse più breve di quanto si pensi. Con questo non voglio dare del socialista a Goebbels, bensì fornirvi lo spunto per tirare le righe tra i puntini che collegano Semo Solo Scemi (“dammi tre parole”, ecc.) alla produzione precedente dei Bobby Joe Long’s Friendship Party (aka Oscura Combo Romana aka 0:33 aka...) – gli album autoprodotti Roma Est del 2016 e il successivo Bundytismo – Concetti Sostanze Mainstream - e aiutarvi a vedere, posto che sia possibile, il (o un) disegno complessivo della “trucilogia”, la comprensione (posto che sia possibile #2) del quale non può prescindere dal documentarvi (per i fatti vostri, certo) sul loro retroterra.
Si diceva di Craxi, dunque, che ha l’onere e l’onore di aprire questa terza prova sulla lunga distanza di Henry Bowers e sodali, appena uscita per Contempo Records (diovibenedica): «C’e? un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà? e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche.” L’ex leader del PSI pronunciò queste parole per ben due volte in poco meno di un anno: la prima, nel discorso alla Camera del 3 luglio 1992 in cui chiamò in causa l’intero arco parlamentare sulla questione Tangentopoli, in buona sostanza sfidando chi fosse senza peccato a scagliare la prima pietra (tutti muti, naturalmente); la seconda, nel suo ultimo intervento in Parlamento del 29 aprile 1993: Craxi cita Craxi nel contesto di un assai meno evangelico discorso che risuona come il più classico dei “ve l’avevo detto, io…”.
Ma questo non è un disco dei PSI, né una prova solista del loro frontman Bettino, e i BJLFP mettono subito le cose in chiaro facendo eco a quel “grida spagnolesche” da cui prende avvio la rumba techno-wave di “Dreaming Ambaradam” - titolo autoesplicativo quant’altri mai -, violentata ad arte dall’arte declamatoria di Bowers (sì, sì, dai, il riferimento è a quel Bowers lì, quello di IT), il quale, senza infingimenti e ipocrisie, minuziosamente illustra le complessità politico-filosofiche - quasi esistenzialiste, verrebbe da dire - che si celano dietro il concetto di “so’ tutti uguali”. Ciò che d’altronde aveva già esplicitato, benché assai meno poeticamente, lo stesso Bettino, l’ultimo dei situazionisti, nei due discorsi testé menzionati.
Se risulta piuttosto facile, ma non per questo meno affascinante, risalire alle fonti sonore che ispirano il pentagramma dei BJLFB (punk, post-punk, new wave, synth-pop, goth, EBM, ecc.), più arduo diventa il compito quando si tratta di districarsi nella matassa citazionista che intesse le liriche. Semo Solo Scemi rifulge di afrori Dada e situazionismo (e due...) rivisitati da una sensibilità coatta, fieramente identitaria e grazie al cielo per nulla accomodante. (C’è chi pensa che non sia un disco politico; di fatto è forse il disco più politico del combo romano).
Semo Solo Scemi è, in estrema sintesi, un tassello fondamentale nel mosaico sottoculturale che va costruendosi nel Bel Paese (e in particolare a Roma) da qualche anno a questa parte, e che mira alla derattizzazione del pensiero unico con un sarcasmo che riesce ad essere al tempo stesso culturalmente arguto, insolentemente greve e sardonicamente noir, così come esemplificato dal primo singolo #perlasovranitànazionale, serratissimo uptempo elettropunk costruito sulle splendide rasoiate chitarristiche di Abacab Carcosa e sulla metronomica scansione ritmica di Peter Spandau, che rimandano con didascalico compiacimento al ’77 britannico.
Potrebbe essere quasi un nonsense dadaista e invece funziona tutto perfettamente: dieci pezzi che compongono un concept sulla scemenza della nostra epoca, il cui protagonista, disgregato dai cortocircuiti della narrazione dominante, perde il contatto con la realtà ma viene attraversato da sprazzi di lucidità improvvisa e lacerante; e che senso ha – vien da chiedersi - essere lucidi in un “Mondo Scemo Impazzito” con “ponti giganti, grattacieli / ampie riserve e / nativi incazzati / nativi integrati / nativi emarginati / […] / il buon vicinato / coi veterani sociopatici / futili questioni da bar / per un milkshake / dove però poi aggiungi / Questo è un paese libero!”, e dove alla fine ti ritrovi a scappare dai "pesci palla" assieme a tutti gli altri tacchini che fanno “glu glu glu”?
Ascolto dopo ascolto emergono con naturalezza i fitti rimandi intertestuali, quasi alla stregua di una continuità concettuale zappiana, saettando su composizioni che trovano un misterioso equilibrio tra déjà-vu anni ’80 e sperimentalismi futuristici, convogliando in quel capolavoro assoluto che è “Charles Starkweather” (“Il domani c’ha vita breve / Il domani non c’appartiene”), micro-sinfonia goth - o non goth? Mein Goth? Goth mit lanz? – che, come dicevano un tempo i critici che non sapevano che cazzo dire, da sola vale l’acquisto dell’album.
Fa bene al cuore, fa bene alla mente, fa bene pure al corpo sapere che l’Italia del 2019 non è solo Trap, It-Pop e cantautorato da falò o da assistenza sociale; c’è ancora chi percorre con passione la strada dell’Arte, pisciando nei risvoltini di tutti gli “indies” che incontra, per “aggirare i turchi alle spalle e prendere Damasco”.