Mi ha molto colpito una cosa che Marta del Grandi ha raccontato durante una recente intervista rilasciata a Rumore: diceva che in Inghilterra sono in molti, tra pubblico e addetti ai lavori, a pensare che di italiano abbia solo le origini, e che in realtà sia di nazionalità straniera, vivi e lavori altrove (“Come Carla del Forno” ha aggiunto per precisare il concetto).
Non voglio mettere a tema l’talianità di Marta, così come non l’ho mai fatto con nessun altro artista del nostro paese di cui mi sono occupato. Semplicemente, mi pare che l’episodio riportato sia significativo del fatto che, anno dopo anno, siamo ancora allo stesso punto: non ci crede nessuno che dall’Italia possa venire davvero qualcosa di buono.
È però un discorso che ha a che fare con la percezione, non più con la realtà. Qualcosa si muove, e probabilmente l’hype che questa artista sta suscitando fuori dai confini della penisola potrebbe davvero rappresentare l’inizio di qualcosa di grosso.
Marta del Grandi ha inaugurato da poco la sua carriera solista, ma tra i Marta Rosa e il Marta del Grandi Quartet è in giro già da parecchio tempo. Ha una formazione accademica, prevalentemente Jazz, e ha vissuto diversi anni all’estero, tra Berlino e Gand, con anche un’esperienza significativa in Nepal. Un background ampio ed una preparazione solida, requisiti indispensabili per farsi anche solo considerare in un contesto internazionale (che da noi si sia nel complesso più provinciali e raffazzonati non è una novità).
Until We Fossilize, uscito nel 2021 per la celebre etichetta inglese Fire Records, aveva già entusiasmato per l’alto livello della scrittura e per il potere evocativo di canzoni dallo spiccato carattere cinematografico (da questo punto di vista, l’accostamento a Carla del Forno era più che una mera casualità). Se fino a quel momento potevamo considerarla tra i nomi da tenere d’occhio, non pare ora azzardato sostenere che Selva potrebbe seriamente candidarla a divenire un’artista importante, di quelle che davvero spostano gli equilibri e si pongono come punti di riferimento.
Dopo anni di vagabondaggio in giro per il mondo Marta è tornata a casa, ad Abbiategrasso, piccola cittadina nei pressi di Milano, immersa nel parco del Ticino. È da qui, da un posto che è provinciale per eccellenza, nonostante la sua vicinanza ad un grande centro, che Selva verrà lanciato. Un disco che in realtà è nato prima, in Germania ed in Belgio, ma che è stato poi registrato in Italia e suonato dallo stesso gruppo di musicisti che avevano preso parte al progetto Marta Rosa.
E proprio qui la principale differenza tra questo lavoro ed il precedente, almeno a livello di approccio. Se Until We Fossilize era stato per lo più assemblato in studio, suonato quasi tutto da Marta, con l’aggiunta dei vari contributi esterni eseguiti mentre ciascun partecipante si trovava in un luogo diverso, Selva nasce da una situazione live, con gente che ha suonato insieme in passato e che lo fa di nuovo adesso, sotto la sapiente guida di Bert Vliegen (membro sia dei Sophia che dei Whispering Sons) che ha lavorato assieme alla stessa Marta in sede di produzione. Si conoscono da parecchio ed avevano già collaborato in altri progetti; un affiatamento, quello tra musicisti e produttore, che ha contribuito a dare a queste dodici composizioni un andamento fluido e spontaneo.
Selva è un disco mutevole che può essere guardato da parecchie angolazioni; in questo senso riflette appieno la complessa valenza di un vocabolo come “selva”, scelto come titolo proprio per la sua alta variabilità semantica e per la vasta gamma di suggestioni che mette in campo.
C’è stato un gran lavoro sulla voce, al centro del quadro generale e nello stesso tempo mai prevaricatrice sugli altri strumenti; strumenti che, dal canto loro, vengono sempre utilizzati con parsimonia e dosati in maniera sapiente. La conseguenza è un disco che potrebbe ad un primo ascolto essere definito minimale, ma che in realtà è pieno di molteplici elementi e procede piuttosto in punta di piedi.
Meno “cinematografico” del precedente, Selva si abbevera in gran parte alle sorgenti del Folk, con una buona dose di canzoni costruite attorno al sempiterno binomio chitarra/voce, pur con l’aggiunta di alcuni importanti elementi decorativi: “Eye of the Day”, che ha una melodia scorrevole ed un bel solo di sax che concorre ad arricchirne l’atmosfera bucolica; “End of the World pt.1”, che al contrario della seconda parte, che conclude il disco in una soffusa atmosfera di voce e Synth, è una ballata per chitarra, classica nell’impostazione ma con delle buone progressioni melodiche ed un efficace inserto di violoncello; “Two Halves”, anche questa chitarra e voce, con un cambio d’intenzione nella seconda parte che dice parecchio del talento di Marta in sede di scrittura; e poi “Stay”, decisamente americana nelle soluzioni compositive, dove si avverte il grande respiro del Folk moderno, nello spirito di grandi autrici come Mitski e Weyes Blood.
In Selva però c’è molto altro: c’è il Pop barocco dell’opener “Mata Hari”, saltellante e luminosa, con un bel contrappunto di fiati ed un inserto centrale che vira addirittura sull’Ambient; c’è tutta la suggestione artsy di Julia Holter in “Snapdragon”, la voce utilizzata come ritmica ed un gran lavoro di batteria, in un incedere quasi tribale.
Ci sono poi le sempre gradite incursioni in territori più eclettici e sperimentali, quei brani in generale più influenzati dal Jazz: “Polar Bear Village”, ma soprattutto “Chameleon Eyes”, un tripudio di colori di archi e fiati, ed un ritornello apertissimo e quasi gioioso. Oppure consideriamo “Good Story”, che vive sulla dicotomia tra una strofa dagli arrangiamenti minimali ed un ritornello molto più carico, un brano che con un altro tipo di produzione sarebbe stato senza dubbio una hit.
E per non farsi mancare nulla, arriva pure il cantato in italiano della title track, tra voci sussurrate, vocalizzi e tappeti di Synth, siamo più dalle parti della rarefazione elettronica in chiave etnica di Daniela Pes.
Stratificato e maturo, Selva rappresenta già il disco della maturità per un’artista che sarebbe davvero imperdonabile non conoscere.