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REVIEWSLE RECENSIONI
Seeing The Elephant
The Offering
2022  (Century Media Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA METAL / HARD ROCK
9/10
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28/11/2022
The Offering
Seeing The Elephant
Il secondo disco dei bostoniani The Offering è una raccolta di canzoni spiazzante, seducente, in bilico fra primordiale ferocia, complesse strutture contigue al prog e melodie malinconiche.

Seeing The Elephant, secondo prova in studio dei bostoniani The Offering, supera in creatività l'ottimo esordio Home (2019) e si candida a essere il disco metal dell'anno. Folli, bizzarri e geniali, i quattro ragazzi del Massachusetts sfornano un album che è impossibile catalogare sotto un genere specifico. Tutto è estremo, nelle dieci tracce in scaletta, tutte diverse, tutte strutturate in modo da confondere l'ascoltatore: metalcore, prog metal, System Of A Down e Korn, groove adrenalinici, melodie stranianti e digressioni strumentali di tecnica sopraffina. Quando pestano, l'aggressione sonora è insostenibile, e le orecchie sanguinano (la feroce e politicizzata opener "Wasp"), ma, al contempo, sono capaci anche di aperture melodiche malinconiche, che stendono per intensità e mestizia.

Band tecnicamente stratosferica: il chitarrista Nishad George è un'ira di Dio, velocissimo, spiazzante negli assoli da capogiro, granitico in riff che spezzano le casse dello stereo, il cantante Alexander Richichi passa dallo screaming e al cantato melodico con una semplicità disarmante, la sezione ritmica è una macchina da guerra, e Steve Finn, il batterista, picchia come un fabbro, salvo poi inventarsi partiture complesse in controtempo che fanno rizzare i capelli in testa.

Seeing The Elephant, con quella copertina colorata che assorbe anche lo sguardo più distratto, non è un’opera di facile assimilazione, perché quando si pensa di aver colto il mood e la direzione intrapresa dalla band, ci si trova deviati su sentieri paralleli o divergenti, che conducono in altri luoghi, lontanissimi da quelli immaginati. "Wasp", come dicevamo, è un intro durissimo e respingente, un pugno in faccia sferrato con tutta la forza del metalcore più estremo. Eppure, a metà della lunga narrazione (ben sette minuti), il brano assume connotati quasi epici, la melodia spezza le catene del rumore, grazie anche agli arabeschi e ai ceselli di Nishad George, un chitarrista che ama giocare con la leva del vibrato e dare lezioni di tecnica tapping. La successiva "Ghost Mother" è un’altra derapata che lascia sul posto a bocca aperta, tra nuvole di polvere, e unisce l’ipervelocità di esecuzione ad accenti medio orientali, che tanto ricordano i System Of A Down.

Poi, un’improvvisa svolta con "Tipless", un brano atmosferico e psichedelico, una breve parentesi che si sviluppa su una melodia tanto sghemba quanto seducente. Quindi, si riprende la corsa, con l’inquietante "Rose Fire", aperta da spari e sirene della polizia, e la band dispiega nuovamente tutta la sua ferocia, con una prova sopraffina della sezione ritmica che spinge a velocità supersonica. Eppure, anche se qui è la brutalità a farla da padrone, il brano è tutto tranne che lineare, con cambi ritmo inaspettati e arrangiamenti spiazzanti.

La title track fa da spartiacque tra la prima e una seconda parte della scaletta, decisamente più melodica: è una marcia militare intrisa da funerea mestizia, un vertiginoso rallentamento rispetto a tutto quello che si è ascoltato prima. Poi, parte "My Heroine", uno dei brani più riusciti del lotto, che riesce a fondere, in un perfetto equilibrio, l’urgenza metal, una melodia malinconica, una vibrante spinta epica e un lavoro alla chitarra di Nishad George che fa sobbalzare sulla sedia. "Flower Children" parte a razzo con la consueta potenza, per poi scartavetrare un ritornello melodico e furbetto (per quanto possa esserlo in un contesto così estremo), e non sfuggiranno agli ascoltatori più attenti una certa parentela con i System Of A Down (viene in mente "Cigaro" da Mesmerize).

Il disco rallenta ancora, e continua con la superba "Tiny Disappointments", un midtempo molto malinconico, che sfoggia calibratissimi inserti di elettronica e un ritornello orecchiabile ma sigillato da un muro delle chitarre. Se "With Consent" suona come un brano dei Prodigy, rivestito di una pesantissima armatura di metallo, ottimo per un rave a tutta borchia e anfetamina, "Esther Weeps" chiude il disco in acustico, con una melodia tristissima che a metà brano prende fuoco, per poi acquietarsi e, quindi, ripartire veloce verso la catarsi finale.

Seeing the Elephant è un ascolto ostico, a tratti disturbante, di quelli che impongono l'aut aut amore/odio; ma se avrete la pazienza di affrontare i 50 minuti e passa di durata del disco, senza mollare la presa, vi troverete per le mani un gioiello di cui non potrete più fare a meno.