Gli High Desert Queen si sono formati quando il cantante Ryan Garney e il chitarrista Rusty Miller si sono messi alla ricerca di una sezione ritmica che possedesse il medesimo, ed eclettico, retroterra di influenze musicali. Quando hanno arruolato il bassista Matt Metzger e il batterista Phil Hook, si sono trasferiti da Houston ad Austin, e si sono rapidamente affermati nella scena musicale locale con alcuni spettacoli ad alto numero di ottani e groove incandescenti.
Il loro album di debutto, Secrets of the Black Moon, è composto da otto canzoni che è difficile fare rientrare sic et simpliciter in un unico genere, poiché la band attinge da una vasta gamma di influenze, tra le quali si potrebbero citare immediatamente Black Sabbath e Kyuss, pur consapevoli di non poter essere esaustivi.
La traccia iniziale "Heads Will Roll" dà il via all’assalto frontale, con un riff di apertura tenebroso, lento e carico di sventura, prima che la voce di Garney entri in gioco con un contrappunto deliziosamente melodico. Il groove è ciò che attira immediatamente l’attenzione, mentre Phil Hook martella con precisione, senza strafare, e la chitarra di Miller si concede trame dagli echi psichedelici.
Nella successiva "The Mountain vs The Quake" la band pigia sull’acceleratore e la canzone mostra tutto l’arsenale di cui sono dotati gli High Queen Desert: riff pesanti, una linea di basso sferragliante, batteria quadrata e una strofa orecchiabile che si lascia cantare senza difficoltà.
"As We Roam" inizia come se fosse una canzone presa per i capelli dagli anni ’90, un groove potentissimo guidato dalla batteria metronomica di Hooks, su cui si innesta il riff di chitarra sfocato e bollente di Miller: un magma impetuoso di doom, grunge e stoner, che mette in mostra la grande attitudine jam del gruppo (delle cui esibizioni dal vivo si parla un gran bene).
"Did She" è un un’altra fragorosa fucilata, ma si distingue soprattutto per i cambi tempo, l’intrecciarsi dei riff e gli assoli bollenti, che tengono in caldo l’ascoltatore prima di spingerlo nelle trame psichedeliche della breve "The Rise" e nel vortice infernale di "Skyscraper", che lo risucchia in cupi gorghi di sabbathiana memoria.
Le ultime due canzoni, "The Wheel" e "Bury the Queen" (curioso come il timbro di Garney evochi, a tratti, reminiscenze pinkfloydiane), sono le più lunghe in scaletta, e pur mantenendo le stesse caratteristiche dei brani precedenti (riff possenti, ritmica perfettamente sincronizzata, grande voce) perdono un po’ di smalto a causa dell’eccessivo minutaggio. Un piccolo difetto che, tuttavia, non ci fa cambiare l’ottima impressione su un disco (registrato e prodotto benissimo), che suona come un viaggio avventuroso nell’aria torrida e impolverata sollevata da una versione eccellente di groovy rock del deserto.