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REVIEWSLE RECENSIONI
27/01/2022
High Desert Queen
Secrets Of The Black Moon
L'ottimo esordio dei texani High Desert Queen, con un disco sferragliante di groovy rock del deserto.

Gli High Desert Queen si sono formati quando il cantante Ryan Garney e il chitarrista Rusty Miller si sono messi alla ricerca di una sezione ritmica che possedesse il medesimo, ed eclettico, retroterra di influenze musicali. Quando hanno arruolato il bassista Matt Metzger e il batterista Phil Hook, si sono trasferiti da Houston ad Austin, e si sono rapidamente affermati nella scena musicale locale con alcuni spettacoli ad alto numero di ottani e groove incandescenti.

Il loro album di debutto, Secrets of the Black Moon, è composto da otto canzoni che è difficile fare rientrare sic et simpliciter in un unico genere, poiché la band attinge da una vasta gamma di influenze, tra le quali si potrebbero citare immediatamente Black Sabbath e Kyuss, pur consapevoli di non poter essere esaustivi.

La traccia iniziale "Heads Will Roll" dà il via all’assalto frontale, con un riff di apertura tenebroso, lento e carico di sventura, prima che la voce di Garney entri in gioco con un contrappunto deliziosamente melodico. Il groove è ciò che attira immediatamente l’attenzione, mentre Phil Hook martella con precisione, senza strafare, e la chitarra di Miller si concede trame dagli echi psichedelici.

Nella successiva "The Mountain vs The Quake" la band pigia sull’acceleratore e la canzone mostra tutto l’arsenale di cui sono dotati gli High Queen Desert: riff pesanti, una linea di basso sferragliante, batteria quadrata e una strofa orecchiabile che si lascia cantare senza difficoltà.

"As We Roam" inizia come se fosse una canzone presa per i capelli dagli anni ’90, un groove potentissimo guidato dalla batteria metronomica di Hooks, su cui si innesta il riff di chitarra sfocato e bollente di Miller: un magma impetuoso di doom, grunge e stoner, che mette in mostra la grande attitudine jam del gruppo (delle cui esibizioni dal vivo si parla un gran bene).

"Did She" è un un’altra fragorosa fucilata, ma si distingue soprattutto per i cambi tempo, l’intrecciarsi dei riff e gli assoli bollenti, che tengono in caldo l’ascoltatore prima di spingerlo nelle trame psichedeliche della breve "The Rise" e nel vortice infernale di "Skyscraper", che lo risucchia  in cupi gorghi di sabbathiana memoria.

Le ultime due canzoni, "The Wheel" e "Bury the Queen" (curioso come il timbro di Garney evochi, a tratti, reminiscenze pinkfloydiane), sono le più lunghe in scaletta, e pur mantenendo le stesse caratteristiche dei brani precedenti (riff possenti, ritmica perfettamente sincronizzata, grande voce) perdono un po’ di smalto a causa dell’eccessivo minutaggio. Un piccolo difetto che, tuttavia, non ci fa cambiare l’ottima impressione su un disco (registrato e prodotto benissimo), che suona come un viaggio avventuroso nell’aria torrida e impolverata sollevata da una versione eccellente di groovy rock del deserto.