“Per risorgere occorre prima capire di essere morti ed è qui che ci incagliamo. Stiamo camminando sulle macerie di una civiltà scomparsa, ma il nostro stato di ipnosi ci impedisce di vedere, di entrare in contatto con la realtà” (P. Valli).
Se dovessi gettare (anzi vomitare) qui tutto quello che penso, farei un cappello introduttivo lungo mille mila parole. Ho fatto pace con il tempo inutile delle cose di oggi e penso che sia una cordiale sconfitta con me stesso. Poi ho messo un muro armato di cecchini tra me e le assurdità che volete farmi credere come attestati pubblici di bellezza, verità, morali e giustizia. Nonostante questo, nonostante la solitudine giunta copiosa e puntuale a segno di discriminazione, sento dentro un caloroso modo di altrettanta sconfitta che non so spiegare. Si perde comunque e si perde comunque qualcosa. Eppure una direzione devo prenderla e non sapevo decidere.
Poi ho letto Tolle, ho letto Galimberti, ho letto Houellebecq. e ho letto anche Pieralberto Valli, per ben due volte, e ho preso una decisione: ho deciso che la verità da scegliere è quella che sento, quella che vivo come benessere mentale e fisico, quella che non serve imporre agli altri, che magari gli altri mi terranno a distanza lo stesso, che magari avrò più tempo per sognare e meno da dedicare alle maschere e ai vestiti che in fondo io ai vestiti non ho mai dato retta.
Ho letto Il Nodo (edito da Gagari Edizioni), romanzo certamente distopico ma coerente di realtà che cova sotto la buccia delle droghe puerili e becere che ci somministrano ogni giorno. Il Nodo è anche la fotografia che accade in un tempo vicino, anzi contemporaneo, se pensiamo che in America ci sono già i taxi che ormai guidano da soli. Il Nodo è un romanzo dentro cui c’è la morte che conduce alla rinascita (ed è vero anche il contrario), con un finale che non ho voluto spiegarmi e che forse ognuno leggerà a proprio modo.
Si muore per rinascere un poco? Oppure bisogna rinascere ora visto che morti ormai lo siamo già? Io penso che la verità sia proprio in quella terra di nessuno, tua soltanto, quella zona della realtà dentro cui ti riconosci e che il protagonista del romanzo, Hermann (che mi piace ricondurre alla letteratura distopica di Paolo Benvegnù), ha trovato fuori città, dove ormai neanche più serve costruire visto che tutti vivono costipati altrove.
Tra le righe questo libro mi regala la consapevolezza di una verità quasi oggettiva, liquida, ovvia, inevitabile: la vera sconfitta dell’uomo e della società non è oggi il divieto, non sono i social e l’educazione delle nuove parole non dette, è vedere come siamo divenuti talmente poveri da accettare ogni cosa senza farci domande, senza riconoscerci più come individui pensanti. Automi che aderiscono al copione.
Riconoscersi significa però mettere in campo un moto di responsabilità, chiedersi quanto siano affilate le armi della nostra cultura, del nostro potere critico, quanto siamo capaci di capire e di giudicare noi stessi. Quanto invece siamo finiti come gli adolescenti che vedo in questo momento su una panchina, quattro ragazze mezze nude, prive di parole, inchiodate da almeno 35 minuti sui loro schermi, in cui si saranno scambiate poche parole, qualche sguardo, indifferenti al mondo circostante. Non esistono passanti, non esiste il caso, non esiste la seduzione di uno sguardo e nemmeno lo stupore nelle cose che accadono. Esiste la verità che passa dentro i telefoni. E non sono un vecchio, non lo è PIeralberto Valli, non siamo paranoici e non siamo conservatori. Siamo stufi, annientati, spaventati, diversi e inevitabilmente emarginati. Siamo soltanto consapevoli che il futuro è in mano a generazioni che oggi non sanno che cazzo farci della vita senza fare storie sui social network. E probabilmente la “solitudine dei numeri primi”, la mia, quella di Hermann, quella di tutti i veri emarginati che vivono dentro il proprio Nodo, sarà la decisione giusta quando qualcuno verrà a chiederci in cosa davvero crediamo.
Libri come Il Nodo di Pieralberto Valli non badano ai premi e agli encomi. Forse non li meritano neanche. Sono opere che non guardano la didattica e la forma industriale delle cose “buone e belle” ma riempiono le vene di consapevolezza. Se avessimo tutti le vene così, forse questo sarebbe soltanto uno dei tanti romanzi di fantascienza e magari allora si che meriterebbe un premio pettinato. Il Nodo è un libro che serve per rinascere e per morire un poco prima di tornare a guardare i nostri santi telefoni.
“Dove prima c'erano parate militari ora ci sono “pacifiche” distorsioni della realtà e manipolazioni dell'informazione. Siamo tutti liberi di essere ciò che è stato pensato per noi” (P. Valli).
Rinascita. Io cerco sempre delle parole importanti. È in questo romanzo penso abbia un ruolo fondamentale. Che rapporto hai con questa parola, in questo tempo apocalittico?
Il mio libro precedente, Trilogia della distanza, si apriva con questa frase: “non è la fine del mondo; è la fine di un mondo”. Ecco, continuo a credere che un mondo sia morto due anni fa, ma abbiamo preferito fingere che così non fosse. E non sto parlando di pandemie; parlo di rapporto tra cittadini e potere, di empatia, di libertà, di diritti. Parlo di umanità.
Il “nodo” vuole essere un punto di partenza dopo aver certificato la fine di una vita precedente. In questo senso vuole essere una resurrezione. Ma per risorgere occorre prima capire di essere morti ed è qui che ci incagliamo. Stiamo camminando sulle macerie di una civiltà scomparsa, ma il nostro stato di ipnosi ci impedisce di vedere, di entrare in contatto con la realtà.
Dopo la lettura resto fermo ad un bivio e so di poter prendere entrambe le direzioni e non sbagliare comunque. Perché questo romanzo parla di rinascita ma al tempo stesso parla di come la rinascita si arrenda al sistema. Cosa ne pensi?
La questione è che fatichiamo a distinguere la realtà dalla finzione. Tutta la follia dentro cui siamo immersi ci sembra accettabile perché l'abbiamo già vissuta: ci hanno chiuso in casa come i personaggi del Grande Fratello, ci hanno imposto una tessera per vivere come in una puntata di Black Mirror. Per questo ci è parso normale.
Quello che possiamo fare è restare saldi anche se non garantisce la salvezza. Aiuta solo a comprendere che è il mondo che si muove e non sei tu. L'idea geniale del sistema, e quindi del potere, è stato scomparire dalla vista collettiva. Dove prima c'erano parate militari ora ci sono “pacifiche” distorsioni della realtà e manipolazioni dell'informazione. Siamo tutti liberi di essere ciò che è stato pensato per noi. Ma che ci piaccia o meno, questo è il tempo del totalitarismo. Aveva ragione Philip K. Dick: nella seconda guerra mondiale è stata sconfitta la Germania, non il nazismo. Quello è solo emigrato.
Vero quel che leggo dentro la postfazione anche: vieni fuori da un lavoro di distanze, racconti e visioni perpetrate dalla distanza e invece oggi Il Nodo parla di incontro, di riavvicinamento, di un nuovo inizio assieme, perché questo bisogno di cambiare rotta?
Perché quel metro di distanza ormai ci appartiene. Lo abbiamo interiorizzato. Se vogliamo ritrovare un filo di umanità che ci ricollochi tutti nello stesso universo dobbiamo imparare di nuovo il gesto di un abbraccio. È il momento del perdono e della riconciliazione, ma è anche il momento della lotta e del coraggio perché c'è da riconquistare un ingresso verso la nostra umanità.
Spetta a noi riedificare un mondo nuovo, un “nodo”. Suona estremamente utopistico, me ne rendo conto, ma non parlo di un villaggio di baracche di un romanzo di fantascienza. Il nodo di cui parlo è innanzitutto un mondo interiore. È un mondo di legami, di pensieri, di libertà che vanno cercate tra le macerie, tra i fossili di un tempo che è stato spazzato via.
Ad un nodo associo inevitabilmente sensazioni di costrizione, di violenza, di impossibilità al distacco. Sembra un controsenso.
Le due cose coesistono. C'è un distacco da compiere, ma solo per ritrovare un contatto. I rami sono stati recisi, molti sono seccati, altri stanno spuntando. È l'albero della vita a essere stato attaccato e poco importa se il mio ramo sarà quello destinato a sopravvivere o morire. Ora l'importante è garantire la sopravvivenza dell'albero.
Dovremo saldarci in modi diversi da quelli che eravamo abituati a considerare. Dovremo distendere le braccia molto oltre la linea dell'orizzonte per abbracciare altri nodi che ricoprono la superficie del pianeta. Allora saremo una trama.
Una persona, dopo aver letto il libro, mi ha scritto questa frase, che ti cito testualmente: “Ho pensato che più le cime di una corda si allontanano, più i nodi si stringono”. Ecco, il nodo è un laccio che ti si stringe al collo, come i continui ricatti del potere di questi ultimi anni, ma è anche l'immagine di una nuova alleanza tra umani che forse nemmeno sapevano di essere così intimamente legati tra loro.
La copertina. Parlami di quest’albero che ha le sue estensioni mozzate, come a privarlo definitivamente della sua libertà. Dicci di questo cielo azzurro che regala sensazioni positive e buoni presagi; anche in questa copertina c’è molto contrasto.
La copertina è di Francesco Fantini, così come quella del libro precedente, ed è stata fatta alla luce del racconto. Quello che emerge è il contrasto del presente. Il mio universo affettivo, come quello di tanti, è uscito stravolto da questi anni. Tanti amici si sono dileguati, altri sono comparsi dal nulla. La nostra geografia emotiva si è totalmente rinnovata e ha formato l'immagine di un nuovo albero di affetti.
È un albero reciso, certo, ma la potatura è anche un tentativo di sopravvivenza. Siamo stati tutti costretti a tagliare i rami secchi, con estremo dolore, per sperare di conservare la nostra essenza. Nel momento in cui accetti di rinunciare a tutto diventi paradossalmente più libero, ma il prezzo da pagare è altissimo. Ah, il cielo è azzurro perché per fortuna non appartiene agli umani.
Delle volte basta poco per rivoluzionare noi stessi. Forse, a sconfiggere la stasi, serve quella parola, quel gesto, quel certo automatismo di cui non eravamo capaci. Delle volte basta incontrare qualcuno per caso. Questo romanzo, questa rivoluzione, nasce dal caso. Credi nel caso? Che rapporto hai con il destino?
No, non ci credo. Non credo al tempo lineare, non credo alla storia ufficiale, non credo ai telegiornali e a un sacco di altre cose. Ma credo che qualcosa ci unisca e ci permetta di creare connessioni che non siamo nemmeno in grado di comprendere.
Accettare un destino non significa essere fatalisti. Siamo sempre chiamati a una scelta ed è un tema che ritorna anche nel libro. Siamo noi a decidere se percorrere la strada che il destino ci pone davanti e non c'è alcuna garanzia; ma quando la verità si svela non puoi fare altro che avanzare, costi quel che costi.
Questo romanzo quanto deve al tempo apocalittico che stiamo vivendo? Cerca di darne una lettura, una denuncia, una soluzione?
Quando scrivo cerco solamente di comprendere il presente e immaginare un futuro. Chiaramente scrivo immerso in una realtà mostruosa che influenza la mia percezione delle cose. Ci sono elementi nel libro che possono essere letti come una forma di denuncia, ma non mi concentro mai sui macrosistemi; mi concentro sull'uomo.
È troppo semplice pensare che i cattivi siano sempre gli altri. È quello che siamo abituati a fare: cercare i cattivi sopra di noi, sotto di noi, fuori di noi, mentre in realtà sono dentro. I cattivi sono i russi, gli iracheni, i terroristi; i cattivi sono quelli che portano in giro il cane, quelli che passeggiano in spiaggia, i furbetti che non compiono il gesto di responsabilità che è stato disposto. I cattivi sono tutti tranne noi. Noi siamo i buoni dei film, anche quando abbiamo le mani sporche di sangue.
E nella tua musica, questo romanzo a cosa somiglia? Hai mai pensato alla tua musica mentre lo scrivevi?
Bella domanda. Vivo un profondo conflitto con il mondo musicale da quando mi sono reso conto di non farne intimamente parte. I discorsi che ho ascoltato e letto in questi ultimi due anni mi hanno fatto comprendere che non ho nulla a che vedere con la maggior parte dei musicisti e degli addetti ai lavori che dovrebbero rappresentare i miei “simili”.
Per me la musica e la cultura in genere si basano su una prospettiva culturale necessariamente critica, disallineata, non conforme al pensiero dominante. In questo mi sento tremendamente solo. La musica aspetta giorni migliori, aspetta giorni più liberi. I canti patriottici dai balconi, quelli di un paio di anni fa, sono stati la rappresentazione della gioiosa accettazione dell'incarcerazione. Non credo abbia senso dedicare canzoni ai propri secondini.
Ti cito: "le macchine diventavano più umane man mano che l’uomo si automatizzava secondo i parametri della tecnica". Galimberti chiama questo tempo, il tempo della tecnica. Tu cosa ne pensi?
Il discorso è molto complesso. Il problema non è la tecnica, ma quello che decidiamo di farci. A cosa serve la tecnica? Ti direi che serve a rendere l'uomo più libero, più felice, meno vincolato al lavoro, ecc. ma poi leggo quello che scrive Colao e intuisco quale utilizzo se ne voglia fare. Vedo il mondo degli insetti, un alveare informatizzato in cui ogni evento è osservabile, catalogabile, possibilmente prevedibile. Non mi ritengo un conservatore, ma ogni progresso andrebbe misurato con grande attenzione. Pensa all'energia atomica.
Vogliamo schedare digitalmente ogni cittadino? Vogliamo fare una tessera a punti per poter mangiare? Vogliamo usare il modello cinese e dare la possibilità di vivere solo a chi si conforma? Qual è il nostro limite non negoziabile? Pensiamo all'esperimento del green pass qui in Italia (un esperimento che purtroppo è solo all'inizio). Non ho sentito molti intellettuali sollevare critiche al riguardo, se vogliamo tornare a parlare di arte e musica. Ma probabilmente con l'età sto diventando paranoico.
Ad un tratto il protagonista si ritrova in un villaggio del “vecchio mondo”, quanto meno del “vecchio modo di stare al mondo”. Mi ha molto colpito quando sottolinei come qui, nel vecchio mondo, le porte tornavano ad aprirsi con un gesto fisico. Pomelli da girare, porte da spingere, maniglie etc. Un esempio di esperienza. Il nuovo mondo con i suoi automatismi, sta polverizzando l’esperienza. E non solo nella fantascienza o dentro le pieghe di un romanzo distopico. Ma accade, con la musica di tutti i giorni, con i rapporti liquidi sempre digitali, accade oggi, ora mentre ti scrivo. Credo che questo sia anche un romanzo che riconduca ognuno di noi alla verità che regna dietro l’esperienza. Cosa ne pensi?
Credo che scrivere fantascienza oggi sia semplicemente una forma di contrabbando per parlare del presente sotto mentite spoglie. Il cristianesimo ci ha dato un grande insegnamento ed è che la verità passa attraverso il corpo. Dio si fa carne e scende tra gli umani, si sporca le mani, cammina per le strade, si fa crocifiggere. Tutto questo per creare una chiesa, cioè una comunità. La vita mono-cellulare degli ultimi anni, la vita disgregata, atomizzata, la parola soffocata, i sorrisi mascherati sono immagini anti-sociali, anti-umane, anti-biologiche. La vita passa dal corpo esattamente come la morte. Dovrebbe esserci chiaro.
Tornando alla musica, l'idea di un concerto senza contatti semplicemente non ha senso. È un rito non consumato, è una scopata nel metaverso. La nostra esistenza passa dall'esperienza e quell'esperienza è necessariamente carnale, rischiosa, incontrollabile. Dovremmo dire a Gesù che è tempo di tornare a casa. Qui non va più di moda.
Chiudo promesso. La scrittura, oggi anche la musica e più spesso qualsiasi cosa, sta diventando individuale, priva di comunione, vi sono distanze, individualità, egocentrismo. Siamo davvero immersi in tutto questo, stiamo davvero andando verso direzioni irrimediabilmente perdute o c’è la speranza di trovare ancora dei nodi a spasso per questa vita?
La speranza è sempre qui con noi. Ne abbiamo le tasche piene. Come sempre, io mi concentro sull'uomo. Tutto ciò che accade fuori è il risultato di ciò che abbiamo dentro. La realtà esterna non si modificherà fino a quando non cambieremo il nostro modo di vivere e di sentire; fino a quando non smetteremo di avere paura.
Nel mio ultimo progetto musicale ho fatto moltissimi concerti in solo. È stato un insegnamento e la dimostrazione di un errore: non c'è musica senza contatto, senza interazione, senza fiato nel fiato, sudore nel sudore. È tempo di aprire le porte e le finestre. E possibilmente anche il cuore.