L’omonimo esordio degli Scatola Nera sembra ribadire un concetto essenziale: per quanto in questo momento storico sia del tutto fuori mercato, un certo tipo di musica legato ad una scrittura “alta” e ad un lavoro di arrangiamenti curato e a tratti raffinato, è ancora fortemente prerogativa del nostro paese. Che poi in certi frangenti possa essere una condanna, ci può anche stare ed è senza dubbio vero, ma credo che moriremo con questa evidenza: l’Italia è il paese dei cantautori, dell’opera lirica e anche la musica classica vi ha da sempre giocato un ruolo di rilievo nel definire tutto ciò che poi è stata la modernità.
Quindi non stupiamoci se periodicamente saltano fuori musicisti come Luca Barbaglia, che hanno un mondo da raccontare e lo raccontano cantando e scrivendo canzoni.
Quest’estate avevo ascoltato il singolo “Terra senza pioggia” e ne ero rimasto impressionato: melodia struggente, voce interessante, arrangiamenti cesellati alla perfezione e testi vagamente surreali sul modello ormai stra consolidato del primo Bob Dylan (da noi lo ha ripreso pedissequamente De Gregori e da allora rimane un riferimento irrinunciabile anche per le nuove leve che si vogliano smarcare dall’It Pop imperante).
Indubbiamente il musicista brianzolo ha stoffa e ha l’urgenza espressiva necessaria a combinare grandi cose. Scatola Nera oggi è il suo progetto ma è anche e soprattutto una band, che ha il suo nucleo fondamentale, oltre che in Luca, nel sassofonista Gaetano Pappalardo e nel chitarrista Simone Sigurani. I brani che compongono il disco sono poi nati grazie al sodalizio con Giacomo Carlone, che lo ha prodotto e ha saputo consolidare le forme che i suoi autori hanno imbastito assieme al resto della formazione.
Visti dal vivo, in effetti, gli Scatola Nera sono una vera e propria orchestra: sul palco vanno in otto, un insieme che comprende, oltre alla batteria (Giacomo Carlone) e alle tastiere (sempre Gaetano Pappalardo), anche fiati (Vito Emanuele Galante alla tromba e Lorenzo Cantaldo al fagotto) e ben due coriste (Maddalena Silveravalle e Marina Ladduca, anche se Luca ci tiene a precisare che si tratta di cantanti vere e proprie). C’è un po’ di confusione, soprattutto a livello vocale, perché quello che in studio è mixato alla perfezione risulta difficilmente riproducibile in un contesto live che non sempre è del tutto favorevole; ciononostante, almeno quando li ho visti io (Mare Culturale Urbano a Milano il 2 ottobre, in quello che è stato di fatto un vero e proprio release party, anche se il lavoro sarebbe stato pubblicato solo la settimana successiva) sono stati coinvolgenti e perfettamente in grado di trasmettere l’essenza delle loro composizioni.
Scatola Nera, dicevamo, parte dal cantautorato (De André è senza dubbio uno dei riferimenti principali) per poi espandere il tutto verso orizzonti che vanno dal più classico Folk alla musica popolare nostrana, passando per generi dimenticati come Ragtime e Foxtrot, di cui echi si avvertono soprattutto negli intermezzi denominati “Remnants”, che sono quattro e che fanno da collante ai vari episodi, linguaggio da improvvisazione che ogni tanto evoca suggestioni Jazz.
I brani veri e propri sono belli, molto cameristici nell’esecuzione e nell’impianto generale, con la voce che guida il tutto ma rimane tutto sommato al servizio dell’insieme, un lavoro di produzione davvero magnifico, che fa risaltare le singole componenti senza dare troppo rilievo all’una o all’altra (i fiati ad esempio sono parte del tappeto sonoro e lo impreziosiscono con discrezione mentre le voci femminili sostengono quella di Luca e ogni tanto la integrano, come nell’interessante finale quasi Afro Beat de “L’elefante”).
Permane la malinconia ma c’è spesso uno sguardo divertito e sornione, come se l’io narrante fosse in qualche modo compiaciuto del suo disagio oppure osservasse dall’esterno una processione scalcagnata di individui che cercano il proprio posto nel mondo.
Luca Barbaglia scrive bene e i suoi testi, seppure non si possa dire che brillino per originalità, fanno comunque uso di immagini efficaci e si elevano sopra la media di quello che ce oggi in giro in Italia.
Certo, le soluzioni alla lunga sono un po’ ripetitive ma è difficile non rimanere colpiti dalla triste semplicità di “Scatola Nera #1”, “Strada chiusa”, “La contessa Salamandra” o lo struggente sogno ad occhi aperti di “Tekeli-li!”, che rielabora liberamente il misterioso finale del “Gordon Pym” di Poe.
Un esordio convincente, che certifica l’abilità dell’etichetta La Bella Scheggia nello scovare talenti senza badare a trend d’influenza e che nella sua versione fisica (ahimè solo in vinile) è reso ancora più bello dal suggestivo artwork di Alberto Fiocco. Non credo che sarò bollato come disfattista se dico che per una proposta del genere ci sarà pochissimo mercato ma, se ho capito qualcosa di Luca ascoltando queste canzoni, non credo che gli importerà più di tanto.