In tutta la sua carriera Tori Amos si è sempre contraddistinta per la capacità di osare. Fin dal bellissimo esordio Little Earthquakes (1992), ove in "Me and a Gun" racconta come grazie al canto e a una forza psicologica inaspettata sia sopravvissuta a uno stupro, per arrivare a Strange Little Girls, il disco che precede Scarlet’s Walk, intrigante concept album di cover di canzoni di autori maschi interpretate da una donna. E proprio il lavoro di cui ci accingiamo a parlare palesa la continua brillantezza della vena creativa della “Cornflake Girl”. Si tratta di un altro progetto a tema e qui la Amos punta ancor più in alto, realizzando un concept on the road attraverso le peregrinazioni su e giù per gli Stati Uniti dell’alter ego Scarlet, dalla quale nasce il titolo.
Con diciotto brani, in settantaquattro minuti Scarlet/Tori tocca luoghi e storia del suo Paese, il rapporto con i nativi e le proprie lontane radici Cherokee, i sentimenti e le relazioni con diversi tipi maschili, la politica e le emozioni legate a quel maledetto 11 settembre 2001, ancora così vicino temporalmente all’epoca della stesura di testi e musica per quest’opera.
Sfilano così l’opener “Amber Waves”, il bellissimo e dolce singolo “A Sorta Fairytale”, il vaudeville pianistico di “Wednesday” (contrappuntato dalle chitarre elettriche quasi funk di Mac Aladdin e Robbie McIntosh) e a mano a mano si snocciolano i temi e gli argomenti cari all’autrice. La religione, la politica, la crisi dei valori, la morte, il desiderio e il tradimento aleggiano sulle note di “Strange”, della profonda e malinconica “Carbon”, nel disincanto di “Crazy”, narrazione di un falso amore vissuto durante i vari spostamenti nelle città americane, prima di un breve break con “Wampum Prayer”, recitata a cappella, come fosse un canto indiano.
Registrato nel suo studio in Cornovaglia, Inghilterra, Scarlet’s Walk è un disco omogeneo, tuttavia mai noioso, concepito senza l’elettronica dei precedenti To Venus and Back (1999) e From the Choirgirl Hotel (1998). Si può per certi versi assimilare al capolavoro Under the Pink, che però faceva della discontinuità una forza. L’inscindibile diade voce-piano è sempre accompagnata da linee di basso, da batteria e percussioni, suonate rispettivamente dai fidati Jon Evans e Matt Chamberlain; poi, come abbiamo già visto, vi sono svariate chitarre inserite nel tappeto ritmico e, nei brani più intensi, sopraggiungono gli archi. La stessa Tori accanto all’amato Bösendorfer affianca il Rhodes, il Wurlitzer e l’ARP synthesizer: armonia e raffinatezza si rivelano senza pudore nell’ironica e scanzonata “Don’t Make Me Come to Vegas”, nelle atmosfere quasi r&b di “Sweet Sangria” e nel sofisticato pop jazz di “Your Cloud”.
La cadenzata “Pancake” tuona contro gli inganni del potere, prima della toccante “I Can’t See New York”, sette minuti ispirati dalla tragedia di inizio millennio che ha cambiato il mondo intero.
«Dopo la caduta delle Torri Gemelle, la gente ha abbassato la maschera e si è posta questioni che non si poneva da tempo. Io stessa, ormai sulla soglia dei quarant’anni, mi facevo domande. Così ci siamo messi in viaggio, era la cosa più logica da fare; lo faccio da così tanto tempo che è lì dove trovo alcune delle mie risposte. Quindi siamo partiti, il viaggio in macchina costituisce parte della mia vita, e le canzoni hanno iniziato ad arrivare».
Tori Amos riesce sempre a rendere speciali le sue performance live con garbo, classe e grinta. Viene letteralmente adorata dal pubblico quando sale sul palcoscenico e incomincia una sensuale storia d’amore accarezzando il pianoforte. Tuttavia il tour di Strange Little Girls rileva un’importanza fondamentale anche per lei, che trae ispirazione per immedesimarsi in Scarlet e creare questo concept poetico dall’alto lirismo musicale. Nel gospel di “Mrs. Jesus” e nell’intensa traccia finale “Gold Dust” sceglie con eleganza un’orchestrazione da favola, con una sezione d’archi che dipinge sfondi nuvolosi su una limpida melodia.
Rimangono da annotare “Another Girl’s Paradise”, con il ritornello veramente catchy, l’elegia della title track e “Virginia”, forse il brano più vicino allo stile di Under the Pink. Viene volutamente lasciata per ultima nell’analisi la leggiadra e nostalgica “Taxi Drive”, canzone emblema dell’opera e rifugio per il lungo viaggio compiuto in questo bellissimo disco. Composizione dalle andature folk pop, è il secondo singolo dato alle stampe e, utilizzando le parole stesse dell’autrice, “Parla di come le persone reagiscono alla morte e del tradimento che può avvenire anche dopo di essa”. L’idea di avvicinarsi alla conclusione di una lunga avventura con un taxi è un altro pallino della songwriter, affascinata da quanti discorsi e quante cose possano accadere all’interno di quell’auto speciale, condotta da una persona sconosciuta, ma allo stesso tempo fidata, cui si possono raccontare le proprie vicissitudini senza essere subito giudicati.
La carriera di Tori Amos sicuramente raggiunge un apice in Scarlet’s Walk, con un ottimo riscontro commerciale e di critica. La successiva ottava fatica, The Beekeeper, cerca di mantenerne le atmosfere senza più l’impetuosità, l’amalgama e l’ispirazione della precedente. Sarà così pure per i successivi sforzi caratterizzati da una potente spinta a recuperare la musica dei secoli passati mantenendo comunque un piede sempre ben piantato nel presente. Night of Hunters (2011) ne è fulgido esempio, e risultano interessanti anche alcuni spunti dell’ultimo Ocean to Ocean (2021), celebrato per il ritorno di alcuni elementi cruciali della storica band, i fedelissimi Chamberlain, Evans e Aladdin.
Artista rivoluzionaria dal talento innato, ha dato voce alla rabbia e al dolore in una lotta continua contro gli stereotipi. Figlia di un pastore metodista ultraconservatore di Georgetown, ha vissuto i primi contrasti proprio all’interno della sua famiglia e ne ha tratto linfa per concepire un proprio ideale di femminismo, raccontando i dolori per le diseguaglianze e auspicando con tenacia equità e indipendenza. Una donna straordinaria.