A prescindere da quello che ciascuno di noi possa pensare sul synth pop e gli anni ’80 (intendo quelli più visibili e mainstream), Rio è fuor di dubbio un gran bel disco.
Certo: Simon Le Bon non aveva una gran voce (ma migliorerà col tempo), i restanti componenti della band (John Taylor, Nick Rhodes e Roger Taylor) erano discreti musicisti e niente più, e MTV contribuì non poco a creare un fenomeno che diversamente avrebbe avuto dimensioni più contenute. E aggiungiamo anche che la copertina del disco, che ben rappresentava la disperata e ossessiva fascinazione per l’esotico imperante in quegli anni, è a dir poco indecente.
Tuttavia, c’erano le canzoni, alcune delle quali decisamente buone. Canzoni furbette, che miscelavano sentori rock e new wave con elementi prevalentemente dance e pop, e tuttavia in grado di reggere il logorio del tempo e trasformarsi col passare degli anni (stiamo andando verso il quarantennale della pubblicazione) in autentici evergreen per tutta una generazione: l’ariosa title track, la rockeggiante Hungry Like A Wolf, la sensualissima The Chauffeur (che mostra il lato più dark della band) e soprattutto Save A Prayer, penultima canzone del lato B e probabilmente la migliore in assoluto della produzione del gruppo di Birmingham.
Se da un punto di vista formale, Save A Prayer è una classica ballata dal suono patinato e suadente, il testo al contrario è oscuro, sibillino, ambiguo. Parla d’amore, ma non si capisce se si tratti di un’estemporanea avventura (“Alcuni la chiamerebbero storia di una notte, ma noi possiamo chiamarlo paradiso“) o dell’inizio di una lunga relazione (“Non chiedermi perché manterrò la mia promessa“), anche se la sensazione dominante è quella di ascoltare il racconto di un rapporto comunque destinato a finire, soprattutto per colpa di lei (“Ma la paura è nella tua anima“).
Di certo, l’interplay fra le note e le liriche è efficacissimo e si sviluppa leggero nonostante l’abbondanza di synth, mentre si ha la sensazione che il gruppo più marcatamente anni ’80 della storia, pur non tradendo le proprie prerogative pop, per una volta riesca a scavalcare l’angusto steccato temporale e trovare la giusta misura per universalizzare il linguaggio.
Non è solo il bel crescendo melodico a intrigare (l’intreccio tra le tastiere e i controcanti è musicalmente ineccepibile), ma è soprattutto il pathos, trattenuto e sottotraccia, a fare la differenza, istillando nell’ascoltatore un languido senso di malinconia e un pungolo nostalgico, che una breve stretta del cuore collega a un ricordo lontano.