È uscito il disco nuovo di Gary Numan, s’intitola Savage (Songs From A Broken World) e questo è tutto quello che c’è da dire, nel 2017, su un disco nuovo di Gary Numan.
Di cosa vi parlo adesso? Come faccio a tenervi impegnati per, diciamo, un paio di migliaia di battute?
Vi porto a spasso per la lunga e a tratti gloriosa carriera di Newman (uno dei maggiori profeti della Bibbia dell’elettronica, adorato da insospettabili accoliti come Trent Reznor o Dave Grohl), consapevole che, all’interno dello spazio concessomi, dovrò appellarmi all’estrema sintesi ovvero alla superficialità? Ha senso? Esiste una discreta manciata di pubblicazioni, benché tutte in lingua inglese, sull’artista, e, inoltre, sul web, potete trovare tutto il nécessaire per farvi un’idea di chi sia il Nostro; mal che vada, avete sempre Wikipedia, se vi piace la superficialità. Ne deduco che no, non ha senso.
Imbastisco un pippone pseudo nerd sulla tecnologia utilizzata da Newman, masturbandomi sui dettagli infinitesimali dei suoni very Eighties prodotti dagli strumenti digitali e dai synth, e sciorinando una sintassi fintamente involuta con innesti di “boh”, un paio di “mah” e una manciatina di asserzioni strampalate con effetto sorpresa? Ha senso? Non per me e, spero, neanche per voi.
Mi rendo conto di aver già oltrepassato le mille battute senza avervi detto praticamente nulla. Quasi quasi mi candido a premier. (Questa è una tipica battuta da nerd).
Vabbè, veniamo al dunque.
Gary Numan è un artista fuori dal tempo. Nel senso che se n’è sempre sbattuto dell’aria che tira nelle vallate della popular music, marciando diritto, senza mai svendersi, per un sentiero tutto suo, con coerenza e tenacia, persino quando, ai tempi dell’epocale “Are ‘Friends’ Electric”, sarebbe potuto diventare una fichissima rockstar planetaria. Diventò solo (e lo è tutt’ora) fichissimo. E fichissimo, per certi versi, è anche questo Savage; per altri, non è che il solito disco di Gary Numan: pop elettronico dark e glaciale tinteggiato di industrial con (qua e là trapelanti) screziature metal e un retrogusto mediorientale (ribadito dalla grafia utilizzata sulla copertina); solido, ottimamente prodotto, pugnace, a tratti, e, nel complesso, irrimediabilmente noioso. La plumbea “Ghost Nation”, che apre l’album, ne esplicita umori e toni; il singolo “My Name Is Ruin” è una pop song di assoluto rilievo, che vede ai cori la partecipazione dell’undicenne Persia, figlia di Numan; “The End Of Things” e “What God Intended” sono le due ballate obbligatorie, amarognole e gotiche.
Il concept (tale è Savage) è ciò che rimane di un romanzo di fantascienza su cui Numan lavora da anni, ambientato in un futuro distopico: il pianeta è stato devastato dal riscaldamento globale e dalla guerra, e l’umanità, o quel che ne rimane, tenta di sopravvivere. Siamo onesti: anche questa storia l’abbiamo già sentita innumerevoli volte in innumerevoli versioni.
Only for die-hard fans.