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REVIEWSLE RECENSIONI
08/02/2021
Balthazar
Sand
A due anni di distanza da Fever, i belgi Balthazar tornano con un nuovo, stupefacente disco, dall'impareggiabile cifra stilistica e dalle irresistibili melodie.

Con la pubblicazione di Fever, uscito circa due anni fa, i belgi Balthazar raggiungevano lo zenit della loro narrazione, creando un livello di aspettative altissime sul prosieguo della carriera. La bellezza di quel disco, il quarto in studio, faceva pensare a una band consapevole e matura, padrona di una materia, come quella del pop, che veniva elaborata con straordinaria efficacia e originalità. Si attendeva, quindi, con molta curiosità il capitolo successivo, consapevoli delle potenzialità della band, ma anche col dubbio che l’asticella di Fever, posta pericolosamente in alto, non potesse essere più raggiunta o superata.

Invece, Jinte Deprez e Marteen Devoldeere, leader carismatici dei Balthazar, sono riusciti nell’impresa di superare se stessi, regalandoci un album capace di sorpassare in qualità il già notevole predecessore. E ciò, nonostante i tempi bui che stiamo vivendo, mesi in cui impera il dictat della distanza e in cui non è possibile testare del vivo l’impatto delle nuove composizioni. Sand è, quindi, figlio di queste nuove logiche, che hanno, si, modificato pesantemente le dinamiche proprie del metodo di concepire e proporre musica, ma che, in modo obliquo, sono riuscite a tirare fuori le migliori risorse da chi ha comunque cercato di uscire dal doloroso empasse.

Nasce, così, una scaletta di undici canzoni costruita a distanza, figlia di un songwriting piegato, obtorto collo, alle nuove ristrettezze sociali e quindi sviluppato attraverso il confronto via skype, l’utilizzo della tecnologia e il ricorso a sample di batteria e synth bass. Elementi decisamente nuovi, che hanno modificato la confezione, senza tuttavia aver in alcun modo intaccato la sostanza di un suono e di un’ispirazione, oggi, più vivi che mai.

I Balthazar si confermano, così, una band dalla cifra stilistica unica, capaci di un’eleganza formale, in cui convivono raffinata estetica dandy e un vagamente nostalgico passatismo verso gli anni ’80, creatori di un immaginario pop, che sfugge all’ovvietà dell’espressione monocorde, e si sviluppa, invece attraverso una trama melange di suoni e di intuizioni che si nutrono di groove funky, atmosfere da jazz club, beat da dancefloor e languori da ballata soul.

Datemi una linea di basso e intorno ci costruirò un mondo. Sembra questa l’idea che sta alla base di undici canzoni solo all’apparenza lineari e dirette, ma che si arricchiscono, nel loro sviluppo, attraverso un gioco di luci e di ombre, di vuoti e di pieni, di arrangiamenti che aggiungono e tolgono, creando intarsi di rilucente bellezza, anche attraverso l’inaspettata sottigliezza di un suono.

La ritmica secca e tribale che attraversa Moment, l’opener del disco, si veste, ad ogni carezzevole ritornello, di nuovi colori: un giro di chitarra, una punteggiatura di fiati, un accattivante coretto, il liquido dipanarsi di un synth. E’ questa la filosofia dei Balthazar, creare canzoni che stordiscono per perfezione melodica, che conquistano al dancefloor con irresistibili groove funky, che stupiscono nell’alternarsi dei timbri vocali, il baritono e il falsetto, perfettamente bilanciati, fra strofe e ritornelli.

Il funky da posa dandy di Losers (con omaggio a Paolo Conte, citato nel testo), l’immaginario notturno evocato dalle suggestioni contemplative della splendida On A Roll, il carezzevole dipanarsi eighties di You Won’t Come Around, lentone guancia guancia dagli struggimenti romantici, le morbide volute dance di Linger On, il beat ipnotico di Passing Through, la cui coltre ipnagogica viene dipanata da uno straniante arrangiamento d’archi o lo stiloso pianoforte jazzy che accompagna il finale di Powerless, sono solo alcune delle gemme di un disco, che si potrebbe ballare dall’inizio alla fine, se non fosse per quelle continue intuizioni e colpi di genio capaci di rapire l’ascoltatore in una stupefatta estasi contemplativa.

Con gli occhi ben aperti sul nostro amaro presente (lo sguardo pessimista e irrequieto delle liriche) e la capacità di adattarsi alle nuove dinamiche sociali, i Balthazar, pur rimanendo fedeli alla propria cifra stilistica, sono riusciti nell’intento di aggiungere un ulteriore tassello al loro puzzle musicale, e di concludere, con un capolavoro, la prima parte di carriera, iniziata dieci anni fa con il malinconico Applause.

Difficile trovare oggi qualcuno che riesca a maneggiare la stessa materia con altrettanta maestria, tanto che, per parafrasare Lester Bangs a proposito dei Clash, verrebbe da dire che i Balthazar sono, sic et simpliciter, una della poche pop band che conti veramente qualcosa.


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