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REVIEWSLE RECENSIONI
03/04/2020
Waxahatchee
Saint Cloud
“Saint Cloud” è dunque un disco che scorre via piacevolmente, riuscito in ogni sua parte, con alcuni episodi decisamente sopra la media...

“I’ve become so obsessive about people like Lucinda Williams, Linda Ronstadt, and Emmylou Harris, all these country powerhouse women. I wanted to step into that power a little bit.”

Katie Crutchfield sembra pacificata. Gli ultimi anni di tour, ha dichiarato recentemente, l’hanno stressata al punto tale che si era messa a bere parecchio, tanto da raggiungere un punto critico. Non è andata in riabilitazione ma ad un certo punto ha deciso che ne aveva abbastanza e ha smesso. Non ne parla molto in queste canzoni (solo una piccola menzione in “Arkadelphia”, quando dice che “If I burn out like a lightbulb they'll say she wasn't meant for that life”) ma dev'esserci riuscita bene, a giudicare dalla serenità che sta sfoggiando nelle recenti interviste. 

Lo si capisce anche ascoltando questo “Saint Cloud”, il nuovo disco pubblicato come Waxahatchee, il quinto di una carriera decisamente prolifica, se consideriamo che è iniziata solo nel 2012, con le composizioni lo fi di “American Weekend”. 

Ad ogni modo, la dichiarazione che abbiamo riportato all’inizio costituisce una chiave interpretativa privilegiata per inquadrare questo lavoro. Se il precedente “Out in the Storm”, pur mantenendo inalterato il marchio di fabbrica, metteva in primo piano arrangiamenti più ruvidi, con una notevole presenza delle chitarre distorte, questo sembra passato attraverso un lavoro di asciugatura, con la sovrastruttura rock che è stata eliminata, in favore di una soluzione molto più classica, in linea con i grandi nomi della canzone americana che lei stessa ha citato. Già l'iniziale “Oxbow”, con la sua struttura scarna, piano, voce e batteria, fa capire che qualcosa è cambiato, che l'aggressività iniziale si è stemperata. L'impressione è che si sia voluta inserire direttamente in questo filone, dando il proprio contributo a questo canzoniere universale, scrivendo brani lineari e piacevoli, ottimamente riuscite anche se una certa eco di già sentito è inevitabile. 

“Saint Cloud” è dunque un disco che scorre via piacevolmente, riuscito in ogni sua parte, con alcuni episodi decisamente sopra la media: “Can't Do Much” e “Hell”, folk rock da manuale, con l'acustica a fare il grosso del lavoro ritmico; il singolo “Fire”, che ha un'impronta maggiormente Pop, con l'utilizzo delle tastiere e le linee vocali che si avvitano su se stesse a ricordare il lavoro di Frances Quinlan. Molto bene anche “War”, che è più robusta, e che coi suoi fraseggi di elettrica e un ottimo ritornello, potrebbe essere una delle migliori dal vivo. 

Ci sono anche alcune ballate, come “Lilacs”, strofe à la Dylan e feeling profondo oppure “The Eye”, acustica e densa di quotidiano disincanto. Ed è degna di nota anche la title track, posta emblematicamente in chiusura, piano elettrico e chitarra, una generale impronta lo fi, quasi ad evocare, in funzione di commiato, le sue prime composizioni da cameretta. 

C’è un senso di generale pacificazione e serenità, in questo disco. È un ulteriore tassello di una carriera che non ha mai conosciuto momenti di reale eccellenza ma che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante in quel grande calderone che è l'Indie Folk di matrice femminile. 


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