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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
01/04/2024
Umphrey’s McGee
Safety in Numbers
Il quarto album degli americani Umphrey’s McGee, “Safety in Numbers”, pubblicato nel 2006, possiede un gusto progressive squisitamente europeo e presenta ospiti del calibro di Huey Lewis e Joshua Redman. Si dimostra tuttora un disco solido, in grado di sopportare le intemperie del tempo.

Prog o jam band? Chissà quante volte avrà echeggiato questa domanda nei quasi trent’anni di carriera di questa formazione sontuosa. In realtà, alla fine, poco importa: sicuramente gli Umphrey’s McGee in parte incarnano entrambe le fattispecie, hanno i perfetti connotati per rappresentare i due generi, ma sono anche molto di più. Per qualificarli basterebbe raccontare che nel 1998 hanno intitolato il loro primo album Greatest Hits Volume III. Sono un sestetto (Ryan Stasik, basso, Andy Farag, percussioni, Joel Cummins, tastiere, Moog e cori, Kris Myers, batteria e cori, Jake Cinninger, chitarra, sintetizzatori e cori, e Brendan Bayliss, chitarra e voce) di musicisti pazzoidi, ma bravissimi, e tre di loro sono diplomati al conservatorio.

Si ispirano al grande Frank Zappa e si rifanno a maestri come Grateful Dead, Gov’t Mule e Phish, tuttavia con un pizzico di varietà in più. Ecco perché sono inclassificabili, pur mantenendo i crismi, gli orientamenti e i dettami di questi nomi noti citati. In ambito musicale la parola improvvisazione contraddistingue la pratica del suonare qualcosa di inedito e, con ogni probabilità, inaspettato e sorprendente. Ebbene i membri del gruppo provengono dall’Indiana, si sono conosciuti alla University of Notre Dame, a South Bend e sono tra i migliori esponenti del filone che dal rock si sposta in territori dove il comporre all’istante e senza un precedente canovaccio è una regola basilare.

 

La ricettività e la disponibilità ad annettere i generi più disparati sono all’ordine del giorno quindi in Safety in Numbers (geniale fin dal titolo e dalla suggestiva copertina!), in cui è tangibile l’ispirazione dalla musica dei King Crimson, dei Beatles e dei Led Zeppelin. Ogni membro del sodalizio ha apportato le sue influenze e, in sottofondo, si odono inoltre le tessiture punk reggae dei Police (l’opener “Believe the Lie” è un gioiellino in tal senso), la raffinatezza degli XTC e pure qualcosa dei Kraftwerk e dei Radiohead.

Da che mondo è mondo gruppi di tal lignaggio sembrerebbero più da palcoscenico rispetto alla sala d’incisione, tuttavia in questa bellissima opera viene privilegiata maggiormente la compiutezza dell’aspetto strutturale delle canzoni rispetto alla libera e semplice fluttuazione degli assoli.

 

In generale lo spettro sonoro è allargato dall’endemica presenza di percussioni oltre alla canonica batteria, con il tutto arricchito da interventi occasionali di fisarmonica e sassofono, quest’ultimo suonato magistralmente dall’istrionico Joshua Redman, special guest in “Intentions Clear”. Un altro ospite davvero speciale è Huey Lewis, che fa volare alto con la sua armonica la vivace “Women Wine and Song” (ove aggiunge anche una traccia vocale) e il frammento acustico “End of the Road”, nel quale fa capolino pure il violoncello di Chris Hoffman.

Il pezzo da novanta è comunque “Rocker”, indolente al punto giusto, un brano sul disincanto e sulla tristezza celata nel conformismo. Sono le abitudini, legate alla religione, al capitalismo, al consumismo o a qualsiasi altra cosa opprimente, che comandano la mente e soffocano la libertà: “Ed è difficile rompere le abitudini che prendiamo. Ma non sai che la vita potrebbe portartele via comunque? Se potessi dirlo di nuovo ti farei ricordare quando tutte le cose che condividevamo non erano intaccate da niente”.

 

Ogni canzone, comunque, ha una solidità strutturale non comune e allo stesso tempo suona fresca e avvincente. Inoltre, la competenza tecnica dei sei membri è prossima all’eccellenza, senza però diventare mai una zavorra. I cambi di tempo della frastagliata “Liquid”, l’interessante melodia obliqua di “Nemo”, la “zeppelliniana” “Passing” e il country folk della conclusiva “The Weight Around” confermano le caratteristiche descritte. Coerenza, coesione, comunicazione e complicità si avvertono nella tonitruante “Ocean Billy” e negli oltre sette minuti di “Words”, una ballata che riflette sull’importanza delle parole dette e non dette in una relazione e termina con un perforante guitar solo.

“La nostra fortuna è che siamo tutti amici e ci fa piacere passare del tempo insieme. C’è una sintonia umana e professionale che rende meno faticoso incidere in studio e andare a suonare ovunque”, raccontava Ryan Stasik durante il tour promozionale di Safety in Numbers, che ha toccato anche l’Italia nel marzo 2006. E le attitudini, gli intenti e la gioia di trovarsi sul palcoscenico o in sala di registrazione non sono cambiati fino ai giorni nostri, rendendo gli Umphrey’s McGee una delle band più gettonate del genere, capace senza fare una piega di spaziare dal progressive rock a quello metal con sbalorditive incursioni nel jazz e nel funk. Ancora oggi, dopo quattordici album e numerose pubblicazioni live, i loro concerti sono un vero spettacolo, colmi di sorprese. Un’esperienza diversa da provare ascoltando un gruppo davvero originale, con una fan base fedelissima, innamorata ciecamente di quell’intensità e di quella fantasia musicale unica.