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REVIEWSLE RECENSIONI
28/01/2025
Les Hommes
Sì, Così
"Sì, Così" dei Les Hommes si dimostra un disco molto ispirato, perfetto per chi ami le ispirazioni cinematografiche degli anni Sessante e Settanta, anche quelle più ammiccanti.

A cosa pensate se leggete l’espressione “Sì, così”?

Pensateci un pochino più a fondo, perché al di là della concretezza del suo puro significato, astratto da ogni contesto, con un briciolo di cultura cinematografica della nostra penisola, vi ritroverete in un’ammiccante scena osé di un film commedia erotica anni Settanta.

La cosa davvero curiosa è che Sì, così, in questo caso, è il titolo di un album inglese, di un trio per la precisione, e non è un mistero, ascoltando le prime ispirazioni che fuoriescono all’ascolto, quanto questa espressione debbano essersela cercata direttamente dalle suddette pellicole.

 

Si chiamano Les Hommes, sono di base un trio, capitanati dall’organista Rory More e completati dal percussionista Tarek Abou-Chanab e dal batterista Vladimiro Carboni.

Il mondo sonoro è quello, siamo negli studi di registrazione romani che vedevano i turnisti dell’epoca sbizzarrirsi dietro le composizioni di Morricone, Piccioni, Plenizio, Trovajoli, Frizzi, per dirne alcuni. E queste note diventavano il sottofondo di quelle pellicole dal carattere nascosto ed eccitante, del mostrare una cosa, spesso nascondendola opportunamente dietro una risata, fondamentale sdrammatizzazione di un paese laico che laico non è.

E la natura cinematografica della commedia all’italiana trovava dunque il compimento di un suo sapore, dato dalla risata, da un corpo nudo e da quelle musiche che sembravano talvolta un tentativo grottesco di nascondere quelle parti rese intime da una scollatura improvvisamente smaliziata o magari rendere meno percepibili proprio quelle espressioni colorite e svergognate che emergevano da quegli intrecci di archi, sezione ritmica incalzante, basso felpato e atmosfere larghe. Ed ecco che Sì, così è più di un titolo azzeccato, reso interessante soprattutto dal fatto che provenga da oltre Manica e da mezzo secolo di distanza.

 

Gli ingredienti sonori non sono soltanto ciò che offre il terzetto, ovviamente, ma sono magistralmente completati da session men esterni.

È tutto troppo chiaro già dal primo brano: un oscillatore del Lowrey organo parte e mette la quarta con l’aiuto dell’echoplex, ci obbliga a quei bpm e la partenza di basso, batteria e percussioni non può che dimezzare per incastrarsi e creare quel groove dal sapore unico. Il mondo sonoro è inconfondibile e chiama in causa da subito altri cultori del genere, gli Air, che a metà anni Novanta fecero scalpore con quel loro Moon Safari.

Il suono legnoso del basso è azzeccato e la scrittura risulta semplice senza per questo farti rimpiangere l’armonia e la composizione di livello incredibile da cui trae ispirazione. I momenti solistici sono leggeri ma giusti, sia per il caso del clarinetto basso che per il mondo tastieristico cui si lega. Ottimo. “Sonorissima Bay” è un ottimo inizio.

 

“The Hip Heart” prosegue il discorso semplicemente aggiungendo l’aria immancabile di un flauto e lo spirito evocativo di un vibrafono, i quali, senza l’apporto batteristico ma grazie al solo basso, riescono nel primo minuto a disegnare un mondo esatto. Poi entra la batteria, si ripete il tema di flauti e scivoliamo in un assolo di rhodes che sembra non lasciarti scampo tanto giusto è il momento del suo arrivo. Arriva la parte B ad arieggiare il tutto e ci ritroviamo in un attimo nella seconda metà del brano; ci saluta per un attimo il flauto lasciando che il ritmo incalzi e torna repentino con dei temi che stanno nel mezzo tra un’improvvisazione e  un arrangiamento scritto.

“Hallucinations” è il richiamo più nettamente ispirato a qualcosa di già esistente, almeno nel suo presentarsi, anche se non mi è chiaro bene cosa ci sia dietro di preciso. Si sente riecheggiare il tipico “sha-la-la” cui si prestavano le voci in un frammento del genere e non si può non pensare ai nostri Baustelle ne “Le vacanze dell’83” del loro sussidiario d’esordio, che giocavano a fare richiami per inserirli nella canzone d’autore. Le discese armoniche piuttosto inusuali e personali caratterizzano l’altra faccia di questo brano mettendosi in contrasto col richiamo più netto di cui prima (e salvandolo da una pericolosa situazione citazionistica) ma facendo anche il colpo di portarlo in cima alla lista dei brani più interessanti ascoltati fino ad adesso. Il livello è altissimo.

 

“Mirage”, quarto brano, ha un’atmosfera posata, facendo pensare a qualcosa del primo Tom Scott e ai suoi lavori con gli L.A. Express, consapevole della pericolosità del richiamo fusion. Niente di più lontano, tranquilli. È un occhiolino di questa piccola pillola di brano che pare nascondersi dietro un volume appena più basso degli altri.

Ci pensa il groove della successiva “Night Drives” a confermare la sensazione e il disco risale, prendendosi spazio con un po’ di mestiere e forse abbassando appena l’asticella dell’ispirazione. I due accordi vicini che caratterizzano tutto l’inizio hanno il potere di calmarci e metterci l’animo in pace, perché lì resteremo. La parte B arriva, ricca di accordi e melodia, ma la natura del brano sono quei due accordi, in simbiosi come due vicini di casa che si seguono e quasi spalleggiano facendo le scale.

 

“Veronique” merita un discorso a parte: drumming jazzistico e sabbiato, appena rotolante, note di basso lunghe che paiono dimenticare la parola groove, tutto in favore della larghezza dei suoni di vibrafono, organo e piano elettrico. Il sassofono stavolta gioca nel proprio solo e si prende delle libertà espressive molto più forti dei precedenti interventi solistici tanto che gli altri strumenti sembrano coglierne l’impulso smuovendo questo lento e bel brano dal carattere inequivocabilmente sonnolento.

Il brano successivo parte senza mezze misure, basso da solo suonato forte col cono che distorce, in barba alla pulizia sonora e ai suoni di linea puliti e comodi. Bene così. Perché quello è alla base di queste ispirazioni. Il pezzo è buono, ma oltre alla piacevolezza del suo groove innegabile forse comincia a peccare di semplicità, toccando delle corde che ben funzionano dal vivo, più che su disco. Gli accordi di uscita dal solo ristabiliscono il punto alto d’interesse ed è curioso che tra un assolo e il tema, il punto d’interesse sia il freddo passaggio nel mezzo; come se tra due bellissimi margini che si osservano, la cosa bella fosse il ponte che li collega. Succede, oh certo se succede. “Vampo” si chiama e ce lo ricorderemo per il bridge.

 

“Così Così” parte a mille, lasciandoti senza scampo, grazie all’aumento dell’interplay tra sezione ritmica, piano elettrico, oltre al sax durante il solo. Solita bella frase d’uscita e momento di solitudine percussiva, utile ad assaporare un po’ di vuoto. La ripresa fa comprendere la bontà di questa scrittura, anche se ancora una volta sembra che si sia persa la vena della prima metà del disco, quel perfetto equilibrio tra ispirazione, composizione ed espressività di chi suona e arrangiamento.

“Waltz-a-Scope” sembra chiudere il cerchio dei brani, pare l’ultimo pezzo tanto che controllo la scaletta, e lo fa in maniera appena tiepida, prendendo sempre più le sembianze di un live, il solo di un basso ne è la strana dimostrazione. Un tempo in tre quarti in cui le cose sembrano comunque piuttosto fluide e ben disposte. Non è chiaro se si trovi nel mezzo di una discesa di qualità oppure se semplicemente l’altissimo livello iniziale stia facendo pagare pegno ad un dignitoso resto del disco: possibile.

Ecco che viene in soccorso “Cold Static”; ha qualcosa in più, è evidente, da subito. E non è solo il tiro, il groove, quanto l’ispirazione della scrittura e degli arrangiamenti, l’aria che si respira nelle note lunghe che diventano, a prescindere dal loro essere un rilascio impulsivo di tensione in contrasto con le note, un momento memorabile. E quando le pause diventano una cosa da ricordare, stiamo parlando davvero di cose belle. “Cold Static” finisce nell’olimpo dei brani del disco, rialzando improvvisamente l’asticella.

 

Tocca a “Mirage-Still!” chiudere l’album e come spesso succede viene chiamato in causa un elemento forte, presente all’inizio dell’album. Il piano ripetuto e filtrato da un echoplex serve a riportarci in quel mood, non si aggiunge niente, tanto che il brano è una piccolissima canzone di 1:32.

In chiusura, Sì, Così dei Les Hommes si dimostra un disco molto interessante, perfetto per chi ama le ispirazioni cinematografiche degli anni Sessante e Settanta, con dei picchi assolutamente alti per una buona metà del disco, contrapposti a delle sezioni meno ispirate e più di passaggio che fanno perdere (a malincuore) al resto dell’album lo scettro di "uscita imperdibile".